L'addio
Chi era Bruno Ugolini, cantore militante delle lotte dei lavoratori
Ho conosciuto Bruno Ugolini nella seconda metà degli anni ’60. Ricordo di averlo incontrato a Milano durante le riunioni del Comitato Centrale della Fiom che Bruno, giovinetto, “seguiva” per conto dell’Unità. Il volto affilato, lo sguardo smarrito che sembrava ignorare gli interlocutori, le parole simili a bisbigli, l’abito stazzonato.
Perché a Milano nella sede della Camera del Lavoro di fronte al Palazzo di Giustizia, sulla cui facciata stava scritta una frase che anni dopo si rivelò un sciagurato disegno politico: Iustitia fiat, pereat mundus? Per le riunioni di carattere nazionale veniva scelta Milano per risparmiare poiché la maggior parte dei componenti lavorava nelle regioni settentrionali dove stavano le grandi fabbriche di quella che allora si chiamava l’industria metallurgica. Che nella categoria vi fosse un dna “nordista” era confermato da alcune storie che circolavano, nelle quali era arduo distinguere la testimonianza dalla leggenda. Il primo segretario della Fiom nell’immediato dopoguerra, Giovanni Roveda, aveva stabilito la sede nazionale a Torino. Si raccontava che da lì – essendo deputato – partisse per Roma il lunedì per recarsi alla Camera. I treni allora facevano molte fermate. Così Roveda ad ogni stazione faceva salire il dirigente di quella provincia che gli esponeva un rapporto sommario della situazione e scendeva alla stazione successiva per lasciare il posto al collega di quella località. Così fino a Roma. Ma l’episodio più singolare si svolse in un Congresso nazionale della Fiom. Al momento di mettere in approvazione la lista dei membri del Comitato Centrale (allora erano organismi molto selezionati di poche decine di dirigenti e di membri di commissione interna dei grandi opifici), chiese la parola un delegato di Roma il quale fece osservare che non era indicato nessun membro del Centro e del Sud. Dalla presidenza Roveda lo interruppe: «Ma come? Abbiamo messo due di La Spezia!». Questa premessa mi è servita per introdurre l’episodio che più mi ricorda il Bruno di quegli anni. Mentre era in corso il negoziato per lo storico contratto dei metalmeccanici del 1969, il 12 dicembre arrivò come una raffica di mitra (alle 16,37) la notizia dell’attentato nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana a Milano. Le delegazioni – allora appartenevo alla segreteria nazionale della Fiom – erano riunite al Ministero del Lavoro (la sede di Via Flavia). Dopo settimane di lotta era intervenuta, in un clima di forte tensione sociale, la mediazione ministeriale, che accompagnò il confronto fino alla sua conclusione, su di un testo proposto dal Ministro. Donat Cattin riceveva separatamente le delegazioni convocate, come sempre accadeva (e accade) nelle trattative sindacali, in forma ristretta. A seguire il negoziato c’erano, invece, parecchi dirigenti e lavoratori che ogni tanto venivano informati sull’andamento della discussione. Le delegazioni sindacali bivaccavano – per ore ed ore – in un grande salone. Alcuni giocavano a carte.
In quel contesto esplose la notizia della bomba. Allora la vertenza dei metalmeccanici era seguita da ben due troupe televisive, una della Rai ed una di un centro privato (dal suo materiale fu ricavato, poi il film Contratto con la regia di Ugo Gregoretti, mentre le pellicole girate dalla tv di Stato andarono in onda molto tempo dopo in terza serata). Lo sbandamento, lo stupore, il dolore di quelle persone vennero frugati ed immortalati dalle telecamere che inquadravano i volti e carpivano i commenti. È passato alla storia un dialogo tra Pio Galli, segretario organizzativo della Fiom, e Bruno Ugolini (colui che divenne poi il “cantore” dell’epopea dei metalmeccanici). Galli, ex partigiano, rispose con il suo accento lombardo alle preoccupazioni di Ugolini con un liberatorio: ‘’Bruno! Non vorrai mica che ci caliamo le braghe!’’. Fu come se quel salone fosse stato attraversato da una scossa elettrica. Tutti avevano capito che quella bomba era rivolta contro la lotta in cui erano impegnati. E si erano sentiti impotenti, indifesi di fronte a un avversario capace di tanto. A molti era venuto un dubbio atroce: non avremo osato troppo nel dare la scalata al cielo? L’intemerata di Galli aveva indicato quale fosse la reazione giusta. Si produsse però un equivoco, che accompagnò le proiezioni del film in giro per l’Italia. Ugolini era di spalle; pertanto in molti credettero che il compagno redarguito da Pio fosse un altro Bruno ben più ragguardevole.
Ugolini era un cronista della redazione di Milano dell’Unità. Era stato assunto dopo alcune esperienze in pubblicazioni locali – era di Brescia – nello stesso giorno in cui fu assassinato John F. Kennedy. La sua presenza a Roma e l’incarico di seguire i metalmeccanici erano stati imposti direttamente da Bruno Trentin che non era contento di come la vertenza veniva seguita dalla redazione romana. Durante quelle settimane che fecero la storia, l’interesse che Ugolini nutriva per quella categoria divenne amore, passione, condivisione e senso di appartenenza. Bruno – insieme a Giorgio Lauzi dell’Avanti! definito dallo stesso Trentin «il miglior giornalista sindacale italiano; e come lui ne conosco pochi anche in Europa» – non si limitò a raccontare i passaggi di quel negoziato al pari delle lotte articolate che misero in ginocchio il padronato, ma sposò la causa dei metalmeccanici e divenne militante di quell’impresa, del sindacato dei consigli, della battaglia per l’unità sindacale: una causa troppo bella per essere votata alla sconfitta. In quegli anni nacque il sodalizio con Bruno Trentin: un’amicizia ed una dedizione durate decenni e consolidate attraverso tutte le vicende che hanno caratterizzato la vita di questo grande sindacalista, fino alla sua morte nel 2007. Una collaborazione travasata in libri scritti a quattro mani anche se sotto forma di intervista come Il coraggio dell’utopia e Il sindacato dei Consigli. Una collaborazione che fece di Ugolini il custode del pensiero di Trentin nei saggi La scommessa del sindacato, Il tempo del lavoro, Parlano le donne lavoratrici, Il lavoro che cambia. Da ultimo – insieme agli amici e compagni di Strisciarossa – Cari compagni. Ugolini aveva continuato a lavorare per L’Unità fino al 2015, quando il giornale fondato da Antonio Gramsci, fu abbandonato al suo destino dal Pd. Ma Bruno continuò la sua battaglia su Strasciarossa on line e su Collettiva. E a seguire puntualmente gli eventi. Ho conservato una mail che mi scrisse dopo aver letto un mio commento sulla competizione aperta al vertice della Cgil, dopo l’uscita di Susanna Camusso. Io auspicavo l’elezione di Vincenzo Colla. Bruno volle mettermi in guardia. Era il 14 gennaio 2019: «Caro Giuliano, non mi convince l’idea che la divisione in Cgil sia tra colliani fieramente antigovernativi e landiniani pacatamente filogovernativi. Potrei ripescare roboanti frasi anti-Salvini e anti-Di Maio espresse dai rappresentanti del secondo fronte. Mi interessa di più la mobilitazione promossa per il 9 febbraio, da Cgil, Cisl e Uil attorno a una piattaforma discussa alla base e che si vuole alternativa a quella dei gialloverdi. Cose da poco, dirai tu. Però rappresentano un atto politico importante. E che dovrebbe rafforzare l’unità della Cgil e interessare quel che resta della sinistra politica, dal Pd ad altri possibili movimenti».
Ugolini aveva preso parte alla costituzione di Eguaglianza e libertà, l’associazione promossa da Pierre Carniti e Antonio Lettieri, due “metalmeccanici” protagonisti dell’autunno caldo. Ovviamente né le vite delle singole persone né quella dei sindacati conobbero soltanto quella stagione in cui si credette di dare l’assalto al cielo. Le storie individuali e collettive si sono allungate fino ai nostri giorni; ma – come dice la canzone – «se la vita si separa il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà». Basta leggere il commiato che Bruno Ugolini scrisse in occasione della scomparsa (il 5 giugno 2018) di Pierre Carniti, il segretario della Cisl che sconfisse il Pci e i comunisti della Cgil, nella vicenda della “scala mobile” nel 1984 e 1985. «Non è facile dire addio a Pierre Carniti. Come non è mai facile – scriveva – dire addio a una stagione memorabile. Quando immensi cortei operai percorrevano le strade di Milano, Torino, Genova, Napoli, Palermo, Roma. Quando uomini come Carniti, Lama, Trentin, Benvenuto (sarebbe stato giusto ricordare anche i socialisti Piero Boni, Dino Marianetti e Ottaviano Del Turco, ndr) guidavano un processo democratico che partiva dai luoghi di lavoro, per contagiare i quartieri, i territori, le scuole». Poi dava corso alla memoria: «Non aveva un carattere facile Pierre. Il cronista sindacale de l’Unità di allora, “incaricato” di seguire i metalmeccanici, ero io. E mi ricordo bene le sue strigliate quando mi lasciavo prendere dal patriottismo di organizzazione (Fiom) o di partito (il Pci). Ho ancora nelle orecchie le sue collere furibonde additandomi, in una conferenza stampa pubblica a Roma, per un corsivo teso a disprezzare la scelta di un contributo dello 0,50 del monte salari per un fondo di solidarietà. Qui (non sugli aumenti egualitari) aveva ragione lui. Perché aveva il coraggio della proposta, anche se poteva andare controcorrente. Come quando lo avevo visto negli anni ‘80 a Torino affrontare un’enorme e furibonda assemblea operaia chiamata a chiudere una lotta persa alla Fiat. Era stata un miracolo – ribadiva – quella Federazione unitaria dei metalmeccanici. Perché aveva saputo mettere insieme uomini e donne che provenivano da ideologie contrapposte. Che sapevano litigare ferocemente ma anche rimanere uniti. L’altra “ossessione”: l’unità tra sindacati. Vista – sottolineava Ugolini – non come una concessione, ma come una necessità imprescindibile. E non si capacitava – tutti coloro che hanno vissuto quella stagione si pongono la stessa domanda, ndr – del fatto che questa unità si fosse potuta costruire quando c’erano comunisti, socialisti e democristiani che si guardavano in cagnesco e non oggi. Non in un tempo come l’attuale in cui le scelte, le ideologie, gli ideali sono tutti da ricostruire, magari partendo sempre dagli “ultimi”. Chi ha vissuto quella stagione gloriosa non appartiene ad una sola organizzazione, ma è rimasto consacrato alla causa dell’unità sindacale.
Purtroppo, caro Bruno, il sindacato non ha finito per “calarsi le braghe” come pensava Pio Galli. Ha smesso di indossarle. Non è più in grado, da troppo tempo, di alimentare un pensiero collettivo adeguato alle sfide della modernità. Continua a rammendare le solite vecchie calze davanti ad un caminetto ormai spento. Per fortuna tu ed io abbiamo conosciuto un’altra storia; di quelle che bastano per una intera vita.
Non so che cosa scriveranno sulla tua tomba. Consentimi di suggerire un epitaffio: ne ho il diritto come uno degli ultimi sopravvissuti di quella storia comune. Era un imperativo etico caro a Bruno Trentin. Lo aveva appreso dal padre Silvio quando scelse l’esilio per sottrarsi alla vergogna di un giuramento di fedeltà al fascismo: Nul n’est besoin d’esperer pour combattre, ne de vaincre pour perseverer.
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