Un grande insegnamento
Chi era Giuseppe Di Federico, studioso insigne, a lungo solitario e osteggiato difensore di una idea liberale e moderna dell’ordinamento giudiziario
Un leone: mai immagine fu più azzeccata per delineare il profilo, fisico e intellettuale, del professore Giuseppe Di Federico, emerito di ordinamento giudiziario dell’Università di Bologna. A coniarla fu, nel 2012, Guido Vitiello, nel volumetto che riproduce quattro conversazioni con altrettanti veterani del garantismo. E a rilanciarla sul Foglio del 24 settembre scorso.
Appreso della sua morte, PQM non ha esitato un istante a dedicargli il numero di questa settimana, affidando ad alcuni tra i suoi allievi il compito di ricordarne la personalità e, soprattutto, di descrivere l’ampiezza e la profondità dei temi di ricerca cui Di Federico si è dedicato fino all’ultimo istante della sua lunga vita (piuttosto che farne un elenco, si fa prima ad affermare che non c’è angolo della materia “ordinamento giudiziario” che non sia stato analizzato, rovistato, scandagliato dalla fervida mente di Beppe, come potevano chiamarlo gli amici).
Il suo punto di forza, quello contro cui andava immancabilmente a schiantarsi la moltitudine di misoneisti che – per interessi corporativi – osteggiava le tesi da lui propugnate a sostegno di una seria riforma della magistratura? L’impressionante mole di dati che riusciva a procurarsi, per poi magistralmente elaborarli e demolire così gli ideologismi di comodo a colpi di rigorosa empiria. Un metodo che, attorno ai trent’anni, apprese durante un fecondo periodo negli USA e che aveva “importato” a Bologna, ove oltre a divenire il primo professore ordinario di ordinamento giudiziario in Italia, dette vita a due importanti istituti: il Centro studi e ricerche sull’Ordinamento giudiziario, afferente all’Università felsinea, e l’Istituto di ricerca sui sistemi giudiziari del CNR, ancor oggi vivaci e attivi “luoghi del pensiero”.
Potremmo intrattenervi sull’enorme numero delle sue monografie e pubblicazioni, ma lo spazio a disposizione costringerebbe a insoddisfacenti selezioni. Oppure, sull’assidua attività di consulente per le riforme giudiziarie, in Italia (collaborò con Cossiga e, a fianco di Giovanni Falcone, con Claudio Martelli) e all’estero (in Europa, America latina e Sud Est Asiatico). O, con malizia, stimolare l’immaginazione del lettore sul panico che dovette invadere Palazzo Marescialli nel quadriennio 2002-2006, quando le correnti dei magistrati se lo ritrovarono tra i piedi come consigliere del CSM.
Da avvocati penalisti, preferiamo però tributare a Di Federico il merito di averci insegnato a non limitare lo sguardo al diritto e al processo penale, ma a proiettarlo sull’apparato che lo gestisce. Partecipando, sin dagli anni Novanta, a molti Congressi e convegni dell’Unione delle camere penali, seppe schiudere orizzonti più ampi all’iniziativa politica di quest’associazione: non c’era soltanto la sacrosanta e irrinunciabile questione della separazione delle carriere, di cui fu tra i primi alfieri, ma la conseguente operazione verità contro l’ipocrisia totemica dell’obbligatorietà dell’azione penale; bisognava occuparsi di reclutamento e avanzamenti in carriera dei magistrati, restituendo alle valutazioni di professionalità rigore e affidabilità; opporsi all’attività paralegislativa del CSM, incidendo su una composizione troppo squilibrata in favore della componente togata; pretendere una disciplina garantista, ma che non abusasse di sanzioni irrisorie dinanzi a condotte anche molto gravi; porre fine all’anomalia dell’unico Potere titolare di privilegi di immunità da iniziative temerarie sulla pelle dei cittadini.
Questo e molto altro, ci è stato insegnato da Beppe, da Carlo Guarnieri e dagli allievi della loro Scuola. Se Vitiello ha ragione a collocare quel Leone nel deserto – politica e magistratura hanno fatto gli gnorri, trascurando per mezzo secolo di rispondere seriamente alle sue sollecitazioni – noi siamo orgogliosi di averlo accompagnato per un tratto. La traversata è ancora lunga.
© Riproduzione riservata




