Il Sinai era stato il fronte di guerra del giovane ufficiale dell’aviazione Mubarak, quando le armate israeliane minacciavano di raggiungere il Cairo sotto la guida del geniale Moshe Dayan l’uomo con una benda nera e l’inventore della tattica dei carri armati autosufficienti che agivano nel deserto come vascelli pirata, devastando le linee dell’esercito egiziano ancora formato da reparti rigidi secondo i modelli turco e inglese. Mubarak amava la bella vita, le belle donne, detestava i suoi nemici e restò al potere a colpi di referendum manipolati, sull’onda dei sentimenti popolari occasionali e tumultuosi. Esattamente come quelli che lo abbatterono nel 2011 quando lui reagì alla piazza insorta come ogni altro rais prima e dopo di lui: aprendo il fuoco sugli inermi e falciando le strade con le mitragliatrici. Abbattuto nel 2011 e portato davanti al supremo tribunale militare, le accuse contro di lui caddero ad una ad una col passare del tempo e alla fine furono tutte cancellate dal nuovo regime di al-Sisi, nato a sua volta da una repressione ferocissima con i carri armati contro i Fratelli musulmani che avevano vinto le elezioni e che a loro volta avevano scatenato repressioni devastanti.

Mubarak era stato un grandioso tiranno, ma non un tiranno totalitario come gli attuali governanti. Per lui era importante guidare la politica estera con una duttilità creativa che sfidava l’islamismo sunnita, ma non mosse un dito contro le libertà sostanziali degli egiziani nelle loro vite private. Il suo Egitto era uno Stato di polizia, ma al tempo stesso un Paese liberale in cui la pluralità era garantita e la libertà di comunicazione con gli israeliani era sempre aperta. Aveva sostenuto la politica della striscia di Gaza – una terra egiziana conquistata dagli israeliani nel 1967 – come territorio palestinese autonomo e questa fu esattamente la linea che accolse Ariel Sharon, il soldataccio della passeggiata delle Moschee, quando lasciò che la Striscia diventasse il territorio d’insediamento per Arafat nel 1994. Io andai ad assistere alla fastosa cerimonia con cui Arafat prese possesso di questa terra, ma poiché ero arrivato senza un “Passi” firmato e timbrato dagli uffici dell’Olp, fui subito arrestato dalle milizie e messo in quarantena in una rovente capanna dal tetto di alluminio davanti al deserto e fui costretto a guardare la cerimonia su una televisione in bianco nero insieme a uno sceicco caduto in disgrazia.

Ma poi fui ammesso ai festeggiamenti serali e gli egiziani erano i più entusiasti della soluzione che allora sembrava quella più intelligente e produttiva per comporre il conflitto israeliano palestinese. Anche allora centinaia di migliaia di coloni israeliani furono costretti ad andarsene da Gaza affinché il piano costruito con pazienza al Cairo e a Gerusalemme andasse in porto. Questa era la grandezza di Mubarak: aveva combattuto con onore e come un eroe di guerra contro Israele nel 1973. Aveva capito che mai alcuna coalizione araba, anche se fortemente sostenuta dall’Unione Sovietica come era accaduto, avrebbe potuto sconfiggere Israele perché quel Paese aveva non soltanto la potenza militare delle armi più moderne, ma una motivazione e una rapidità d’azione nell’affrontare le crisi, che né l’Egitto né le altre potenze arabe avrebbero mai potuto avere, per quanto numerosi fossero i loro carri armati.

Era dai tempi in cui Mosè impose al Faraone la libertà del suo popolo affinché raggiungesse la sua terra attraverso le acque del Maro Rosso, che il popolo egiziano e quello ebraico scrivevano insieme il destino delle loro terre. Sadat aveva visto prima e aveva sfidato la morte per il primo passo verso il realismo: Mubarak compì i passi successivi anche attraverso periodi di rapporti pessimi fra il Cairo e Gerusalemme, Mubarak non era buono, non era mite, non era democratico, non era un santo da qualsiasi parte lo si guardasse. Ma aveva il dono del realismo e anche la struttura etica del leader che sa di potersi opporre alle piazze, ma non alla storia. Tiranno sì, totalitario no. La capitale egiziana durante il suo regno era una metropoli deliziosamente caotica, ragionevolmente corrotta, anzi corrottissima, ma piena di eventi, arte, libri, congiure, tangenti, champagne e turisti.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.