La transizione è, del resto, il luogo per eccellenza della programmazione, cioè dell’elaborazione collettiva e politicamente impegnativa di un futuro diverso costruito su un diverso modello economico, sociale, ambientale e democratico. Quello che, nel ciclo precedente, caratterizzato da una adesione infondata all’idea di progresso, si era chiamato modello di sviluppo. L’avvento dei movimenti ecologisti ha favorito l’affermazione di una critica alla neutralità della scienza e la demolizione scientifica della tesi negazionista del rischio. Prende corpo la tesi sulla necessità storica dell’obiettivo di conquistare una condizione di qualità dell’ambiente e della vita in ogni parte del pianeta. Da noi, in Italia, quel che sta quotidianamente accadendo rende fisicamente evidente la condizione di pericolo in cui siamo immersi. Franano intere colline, crollano ponti storici; viadotti su percorsi di grande traffico vengono travolti dal fango. Venezia, luogo simbolo di una millenaria costruzione dell’uomo di un delicato ma durevole equilibrio tra l’organizzazione della sua vita sociale e tutti i molteplici e mutevoli fattori che compongono il suo habitat naturale, è sommersa dalle acque mentre il moloch della grande opera, il Mose, rivela tutta la sua impotente inutilità, non essendo neppure in condizione di poter essere avviato.

Sul terreno della modernità, dello sviluppo industriale la ricerca delle vie d’uscita dalla crisi non è meno impegnativa di futuro. Siamo dinnanzi a casi clamorosi di uno sviluppo industriale che ha messo in contraddizione salute e occupazione e che continua a far danni alla salute delle popolazioni e a minacciare, con i licenziamenti, l’occupazione. Se allora un processo di riconversione ecologica si fa necessario, con lui si fa necessaria la programmazione. L’ortodossia economica nega l’evidenza, per restare sul vecchio binario. Come si esce, infatti, dai casi di crisi e dalla più generale esposizione al rischio climatico e ambientale se non con un grande progetto di orientamento e di indirizzo generali, con un programma che ne preveda i tempi e i modi di realizzazione, con un piano di investimenti pubblici, con provvedimenti di incentivo e di disincentivo a quelli privati in funzione degli obiettivi scelti? Roosevelt chiamò la risposta del suo governo alla grande crisi, New Deal. Nuovo metodo dovrebbe essere, a maggior ragione, la risposta a questa crisi, la programmazione appunto.

Il terzo tema che chiede il ricorso alla programmazione per essere affrontato con le politiche di governo è la lotta alla diseguaglianza. Ormai le denunce dell’intollerabilità raggiunta di diseguaglianze nel nostro tempo sono tante, quasi un’inflazione di denunce. Però alla gran mole delle denunce non corrisponde alcuna conseguenza pratica, nell’agire economico e sociale, né parte delle imprese, né da parte dei governi, né da parte dei diversi agenti pubblici e sociali. Tanto clamore per nulla. Può sorgere il dubbio che persino le puntuali denunce delle diseguaglianze, che raggiungono livelli mai prima conosciuti in tutta la modernità, vengano divorate dal sistema delle comunicazioni e anestetizzate politicamente.

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Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.