Solitudine, vuoto e oscurità nella sua opera
Cristina Campo, un’autrice controcorrente, in cui convivono la a solitudine delle radici e la nostalgia per l’origine
“Vedrà come quei piccoli tocchi umani infinitamente teneri e silenziosi non le verranno lasciati mancare; agli intangibili è misteriosamente più facile che a noi manifestarsi nelle cose tangibili”. È il novembre del 1972, e Cristina Campo scrive a Margherita Pieracci Harwell, Mita. La sua amica ha perso il marito, e Cristina conosce bene, nel profondo della sua anima e delle sue carni, quello strazio lancinante che va espandendosi come tentacoli d’abisso. Sette anni prima i suoi genitori sono morti, l’uno a pochi mesi di distanza dall’altra. Prima la madre, nella notte della Vigilia di Natale del 1964. Cristina ce ne lascia uno struggente affresco, colmo di dolce lutto e di lirismo, ricordandone la dipartita nella polifonia notturna delle campane e nelle luci infinite di una Roma assopita nel turbinare dell’inverno.
Poi, a metà 1965, il padre. Cui anni dopo Cristina dedicherà “Il flauto e il tappeto”. E proprio in questo volume Cristina annoterà: “Ci viene insegnato che nella lingua araba classica una radice comune lega tappeto e farfalla e certo non soltanto per la fascinazione dei colori. Il tessere e l’annodare alludono di per sé alle vicende ordite per gli uomini da invisibili mani”.
Solitudine, vuoto e oscurità che nella ricerca morbida di un abbraccio, nel brulicare umido dell’esistenza, sono solcati come oceani da individui che cercano, spinti da mani invisibili, la radice del senso, gli uni legati agli altri. Legati come da radici di possenti alberi. Gli alberi, protesi verso l’infinito del cielo, sono soli, anch’essi, proprio come questi individui, ma del pari sono spettatori di una bellezza verdeggiante, custodi di una vocazione al ritorno e alla gioia – quell’insegnamento sulla antica morte di cui ha scritto il poeta austriaco Theodor Däubler, “le piante ci insegnano il dolce morire dei pagani”. In quella stessa lettera, nell’esorcismo del comune lutto, Cristina evoca la solitudine delle radici. Perché Mita non ha solo perso il marito, il suo amore, parte essenziale della sua vita. Ma si trova, lei e i bambini, negli USA, dove si era trasferita lontana dalla sua storica casa. Torni dove ha le sue radici, suggerisce l’amica, perché la solitudine delle radici è prima di tutto assenza di passato. Si percepisce qui una forte eco di una intuizione formulata anni prima da Simone Weil, quella del radicamento, in opposizione al male del tempo, lo sradicamento.
Il radicamento, concetto che la Weil maturerà nella fase quasi monastica dell’esilio londinese, nella febbrile e produttiva “endura” degli ultimi suoi giorni, è la fondazione di una città degli uomini, non più abbarbicata attorno la luce vuota della fabbrica o del dominio della forza, quanto eretta sulla bellezza della giustizia in senso sovrannaturale.
La casa dell’origine, l’abbraccio delle e nelle radici, rifiuta l’orrore conchiuso della istituzione, della aggregazione grigia. Sembra quasi di leggere quelle deliziose e crudelissime pagine che Thomas Bernhard, ne “L’origine” ha scagliato contro la città, ridotta a congiunzione con il collegio, “la città… è un cimitero dei desideri e delle fantasie, bello in superficie ma in effetti spaventoso sotto questa superficie”.
La ricongiunzione con le radici è senza dubbio alcuno uno dei manifesti più poeticamente politici formulati dalla grandezza lirica di Cristina Campo. Politico perché in questa solitudine si avverte vibrante la ricerca di una comunanza tra simili, la nostalgia di una evocazione di forze stellari, per dirla con il Nietzsche de “La gaia scienza”, la valorizzazione di una identità che ricostruisce, corrobora, nutre, potenzia il passato, e il legame commosso con chi ci ha preceduto.
Una operazione di radicamento corroborante, che spazia nel vuoto claustrale della coscienza individuale, essenza più pura della compassione, come insegna la dottrina del Sunyata, e lenisce le cicatrici della assenza, del lutto e dello sradicamento che l’individuo subisce nella sua nudità davanti la glaciale tristezza del cosmo e della vita.
© Riproduzione riservata




