Si è conclusa ieri a Napoli, innanzi al Palazzo di Giustizia, l’iniziativa del Riformista a sostegno del referendum per la “Giustizia giusta”. Cinque giorni che hanno consentito di raccogliere circa 3mila firme per i sei quesiti. Senz’altro un successo che, da lunedì a venerdì prossimo, si replicherà a Roma, in Piazza Cardelli, e poi ancora a Napoli. Un grande sforzo organizzativo per una testata in prima linea per un’informazione, non solo in tema di giustizia, priva di condizionamenti e volta a fornire al cittadino tutti gli elementi – nessuno escluso – per esercitare le scelte che riterrà opportune.
I quesiti referendari hanno a oggetto riforme che incidono in maniera determinante sulla giustizia e, in particolare, sulla magistratura e sul processo. Il Governo e il Parlamento devono al più presto intervenire per riabilitare un sistema sempre più in affanno e che sta perdendo, giorno dopo giorno, credibilità nei confronti dei cittadini. La magistratura, in particolare, sta vivendo una crisi che non ha precedenti nella sua storia. La fatidica frase pronunciata dagli indagati al momento dell’applicazione di una misura cautelare – «Ho fiducia nella magistratura» – appare, oggi più che mai, come un doveroso (e speranzoso) esercizio di stile. In realtà, essa nasconde la disperazione di chi sa bene che si è entrati in un meccanismo complesso che, a volte, produce tragiche e ingiuste conseguenze.
Il referendum, in uno Stato democratico, dovrebbe essere un istituto svincolato da paludi burocratiche, al quale andrebbe dunque assegnato un percorso privilegiato, così da mettere la politica in condizione di assecondare immediatamente la volontà popolare. Così non è. Basti pensare alla recentissima raccolta di firme promossa dall’Unione Camere Penali Italiane per la presentazione di una legge costituzionale di iniziativa popolare per la separazione delle carriere dei magistrati, sottoscritta da 75mila cittadini e che oggi è ancora pendente dinanzi alla Commissione Affari Costituzionali della Camera. Il deposito delle firme presso la Corte di Cassazione era avvenuto nell’aprile del 2017, ben quattro anni fa. Durante questo lungo arco temporale nulla è stato fatto. Anzi, si è discusso, si è dibattuto, nelle sedi istituzionali e non, ma il percorso sembra ancora lungo. Tant’è che, nelle more, Radicali e Lega hanno ritenuto di proporre un referendum, stavolta abrogativo, che obblighi il magistrato a optare, all’inizio della carriera, per la funzione giudicante o per quella requirente, per poi mantenere quel ruolo nell’arco della sua intera vita professionale.
Si tratta, come è evidente, di cosa ben diversa dalla separazione delle carriere sostenuta dalle Camere Penali, che invocano una distinzione totale tra magistrati giudicanti e appartenenti alle Procure, alla base della quale c’è una scelta già dal momento della partecipazione al concorso e che esclude qualsiasi possibile dipendenza degli uni dagli altri. Si prevedono, infatti, concorsi diversi e due Consigli superiori della magistratura, uno per i pubblici ministeri e l’altro per i giudici. Solo in questo modo si avrà un giudice davvero terzo e non più condizionabile dalle Procure, i cui appartenenti – ove si separassero soltanto le funzioni – continuerebbero a decidere in seno al Consiglio superiore della magistratura su promozioni, trasferimenti e provvedimenti disciplinari anche dei giudici. La separazione delle sole funzioni, in parte già in atto, rappresenta un aspetto marginale delle problematiche che affliggono la magistratura italiana.
Chiarito questo rilevante aspetto, che riguarda il quarto dei sei quesiti referendari, l’iniziativa dei Radicali e della Lega va sostenuta perché rappresenta un’occasione per coinvolgere i cittadini sui temi della giustizia penale e per sollecitare Governo e Parlamento a intervenire con l’autorevolezza che loro spetta e senza subire alcun condizionamento, ma recuperando forza e indipendenza, nel segno di un ormai indispensabile riequilibrio tra i poteri dello Stato.
