Nel febbraio del 1981, un evento apparentemente innocuo scosse l’equilibrio culturale e politico italiano: Dallas, la fortunata serie televisiva americana, sbarcava su Rai Uno. A prima vista si trattava di una soap opera familiare, ambientata tra ranch, pozzi di petrolio e grattacieli del Texas. Ma in realtà, per una parte importante dell’intellighenzia e della politica italiana – soprattutto a sinistra – Dallas rappresentava molto di più: un’invasione simbolica, il cavallo di Troia dell’ideologia americana, pronta a erodere i valori collettivi e sociali su cui si fondava la cultura politica italiana del dopoguerra.

Dalle colonne dell’Unità, nei circoli culturali, nelle dichiarazioni pubbliche, arrivarono denunce esplicite: Dallas non era solo intrattenimento. Era, al contrario, il simbolo della “americanizzazione” dell’Italia, una minaccia alla nostra identità sociale e culturale. Con i suoi personaggi spietati, ricchi, individualisti e ossessionati dal potere e dal denaro, la serie incarnava — secondo i critici — tutto ciò che la sinistra aveva sempre combattuto: il capitalismo sfrenato, il culto del profitto, la dissoluzione dei legami familiari e comunitari. Il personaggio centrale della serie, J.R. Ewing, fu immediatamente identificato come il simbolo di questa deriva culturale. Manager senza scrupoli, bugiardo, manipolatore e disposto a tutto pur di arricchirsi, J.R. divenne l’incarnazione dell’avidità neoliberista. Le vicende della famiglia Ewing, con i loro drammi privati intrecciati a speculazioni finanziarie e petrolifere, sembravano riflettere un mondo basato sulla sopraffazione, l’egoismo e l’ambizione personale.

Non si trattava solo di ideologia. L’Italia dei primi anni Ottanta era ancora attraversata da forti tensioni politiche, economiche e sociali. Il terrorismo non era del tutto scomparso, il lavoro era al centro dei conflitti e la televisione cominciava a giocare un ruolo sempre più determinante nella formazione dell’opinione pubblica. L’arrivo di Dallas fu letto in questo contesto come un tentativo di “diseducare”, di sostituire il senso civico con il cinismo, la giustizia sociale con il successo personale. Come scrisse in quegli anni Rossana Rossanda, Dallas “rende popolare e desiderabile la logica del più forte, la corruzione morale come chiave del successo”. E l’Unità dedicò numerosi articoli all’analisi della serie, definendola “una propaganda per il capitalismo texano” e “un insulto ai lavoratori italiani”. Non fu un caso, allora, che la Rai decise di interrompere la messa in onda di Dallas dopo i primi episodi. Sebbene la serie avesse suscitato curiosità, non fu considerata compatibile con la missione pubblica dell’azienda.

A cambiare le sorti della serie fu l’ingresso sulla scena televisiva di Canale 5: dal 2 giugno 1981, Dallas trovò casa nella programmazione della Fininvest, diventando immediatamente uno dei suoi titoli di punta. Il successo fu straordinario. In breve tempo, Dallas divenne un appuntamento fisso per milioni di italiani. I personaggi della famiglia Ewing entrarono nell’immaginario popolare. J.R., pur odiato da molti, affascinava; Sue Ellen suscitava empatia; Bobby rappresentava l’uomo buono in un mondo corrotto. Le trame, fitte di colpi di scena e di scandali, conquistavano un pubblico trasversale, ben oltre le classi sociali.

Dallas contribuì certamente a modificare il gusto televisivo degli italiani. Introdusse un nuovo linguaggio narrativo: il seriale a lungo termine, il cliffhanger, il culto del personaggio. Avvicinò il pubblico a un modello di consumo culturale molto diverso da quello proposto fino ad allora dalla Rai: meno educativo, più spettacolare, più “americano”. Gli italiani però, pur affascinati da J.R. e dalla sua ricchezza, non ne fecero un modello da imitare. Anzi, spesso lo guardavano con ironia o distacco. La forza della cultura italiana – ancora profondamente legata alla famiglia, alla comunità, al lavoro – rese difficile l’adesione completa a quei valori. Ma certo, il seme era stato piantato: Dallas aprì la strada a un cambiamento profondo nella percezione della televisione e nel modo in cui gli italiani si relazionavano al mondo esterno.

Il caso Dallas in Italia è un esempio straordinario di come un prodotto di intrattenimento possa diventare, suo malgrado, un nodo di conflitto ideologico. Per la sinistra comunista, la serie non era solo fiction: era l’incarnazione di un pericolo culturale e politico. Per la televisione commerciale, invece, rappresentò l’occasione di costruire un nuovo modello televisivo, competitivo e orientato al mercato. Questa contrapposizione dice molto sull’Italia dell’epoca. Un Paese diviso tra tradizione e modernizzazione, tra impegno civile e voglia di evasione, tra cinema d’autore e soap opera. Un Paese che, anche attraverso la televisione, stava negoziando la propria identità culturale in un mondo sempre più globalizzato.