Esteri
Darfur settentrionale, oltre vent’anni di conflitto: 700mila bambini rischiano la vita nella guerra che non interessa a nessuno
Villaggi rasi al suolo, stupri di massa usati come arma di guerra, esecuzioni sommarie, deportazioni: la popolazione civile schiacciata tra l’offensiva governativa e i ribelli. centinaia di migliaia di morti e milioni di sfollati interni, confinati in campi profughi insicuri e sovraffollati. Nonostante l’indignazione iniziale della comunità internazionale e l’istituzione di un mandato d’arresto da parte della Corte Penale Internazionale contro l’allora presidente Omar al-Bashir per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, le democrazie tacciono e dimenticano.
Nessuna flottiglia arriva a portare aiuti, nessun automezzo si dirige nel cuore dell’Africa a soccorrere una popolazione vittima di un genocidio – Troppo distanti da noi, marginali, ma soprattutto: non fanno notizia – Il conflitto del Darfur si trascina da oltre vent’anni, è uno dei drammi più gravi e meno raccontati del nostro tempo. La sua origine risale al febbraio 2003, quando due gruppi ribelli — il Movimento per la Liberazione del Sudan (SLM) e il Movimento Giustizia ed Uguaglianza (JEM) — si sollevarono contro il governo di Khartoum.
Le loro accuse erano precise: marginalizzazione politica ed economica della popolazione non-araba del Darfur, esclusa dai processi decisionali e colpita da decenni di discriminazioni. La risposta del regime fu brutale: Khartoum appoggiò milizie arabe conosciute come Janjaweed, responsabili di una campagna di violenze sistematiche che, secondo le Nazioni Unite, può essere definita una vera e propria pulizia etnica – A distanza di ventidue anni, la situazione rimane drammatica. Nel Darfur settentrionale, la violenza è riesplosa con forza negli ultimi mesi di quest’anno.
Le ostilità tra le Forze Armate Sudanesi e le Rapid Support Forces, un gruppo paramilitare nato dalle stesse milizie Janjaweed, hanno trascinato la regione in un vortice di sangue. Più di 640.000 bambini sotto i cinque anni sono esposti a un rischio elevatissimo: violenze dirette, malnutrizione, malattie come il colera, la malaria, le infezioni respiratorie. Le famiglie, spinte a fuggire dai bombardamenti, si riversano in aree come Tawila, a circa 70 chilometri da Al Fasher, capitale dello Stato del Darfur Settentrionale.
Ma anche lì non trovano sicurezza: cibo scarso, acqua potabile insufficiente, rifugi precari. I pochi ospedali sono stati distrutti e secondo le Nazioni Unite 30 milioni di persone hanno bisogno di assistenza immediata – Ma perché il conflitto del Darfur non interessa a nessuno? Le potenze mondiali, impegnate a difendere i propri interessi geopolitici ed energetici, relegano il Darfur a un tema secondario- C’è poi un elemento di “abitudine”: dopo vent’anni di sterminio della popolazione, il conflitto è diventato parte di un “rumore di fondo” che non scuote più le coscienze. L’assenza di immagini nei media occidentali, la difficoltà di accesso per giornalisti e osservatori internazionali e la pericolosità del contesto hanno ridotto la capacità del Darfur di “entrare nell’agenda” pubblica. In più, il Sudan non è un territorio strategico per le grandi potenze quanto lo sono altri scenari: non ha risorse energetiche tali da mobilitare interventi massicci, e il suo peso geopolitico è relativamente limitato.
Raccontare il Darfur significa rompere il muro dell’indifferenza. Significa ricordare che dietro le cifre — 640mila bambini a rischio, centinaia di migliaia di sfollati — ci sono volti, storie, famiglie. E che l’assenza di attenzione internazionale non riduce la gravità della crisi, ma la amplifica, perché lascia la popolazione ancora più sola di fronte alla violenza.
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