Quando, a fine anni Trenta, un consorzio britannico completò la diga Jebel Aulia sul Nilo Bianco si trattava dell’opera idraulica più grandiosa al mondo. A distanza di quasi un secolo, è diventata l’unica via d’uscita da Khartum per le centinaia di paramilitari e di civili a loro fedeli, che hanno percorso il ponte sulla diga per fuggire dalla capitale, tornata sotto il controllo dell’esercito regolare, dopo due anni. Da quando, cioè, è scoccato il regolamento di conti fra i due ex compagni di merenda che si erano spartiti il potere in seguito alla dittatura di al-Bashir e dopo aver fatto fallire il tentativo di un governo civile.

Le due fazioni

Due generali senza popolo e senza scrupoli che vogliono tutta la torta, ciascuno per sé. Le due fazioni si finanziano con l’esportazione dell’oro estratto dalle riserve nazionali, ciascuna verso i propri protettori esteri. Da un lato l’esercito regolare di Al-Burhan, supportato dall’Egitto e sempre più dominato dalle fazioni islamiste. Dall’altro le Forze di Supporto Rapido (RSF), discendenti della feroce tribù dei Janjaweed, agli ordini dell’ex venditore di cammelli Dagalo, per gli amici Hemedti, vicino agli emiratini e ai mercenari della ex-Wagner, braccia armate di Putin. Proprio il comandante delle RSF, all’inizio dello scorso anno, aveva intrapreso un tour diplomatico presso le principali capitali africane, per accreditarsi come leader riconosciuto del Sudan.

Un Paese scomposto

La scorsa settimana, Al-Burhan ha riconquistato il Palazzo presidenziale e l’aeroporto della capitale, poche ore dopo un raid aereo sul mercato della città di Tora, tramutatosi in una strage di civili. La fuga delle milizie di Dagalo da Khartum rende ancora più evidente la scomposizione del Paese, con queste ultime insediate nelle regioni dell’ovest, del sud e in ritirata verso il Darfur, tristemente noto per l’atroce genocidio di un ventennio fa e dove, negli ultimi mesi, si va consumando qualcosa di peggio della guerra stessa. Una campagna di massacri e stupri etnici perpetrata, casa per casa, dalle milizie di etnia araba ai danni dei loro connazionali di etnia africana.

Numeri impietosi

Le accuse di crimini contro l’umanità sono ricorrenti, riguardano entrambe le parti e intrappolano il popolo sudanese nella sete di potere dei propri militari. Elementi sufficienti a rendere il Sudan, il teatro della più grave crisi umanitaria al mondo, secondo le Nazioni Unite. I numeri sono impietosi: 12,5 milioni di sfollati, sradicati e inghiottiti da un esodo senza bussola. Metà della popolazione in condizioni di carenza alimentare severa. Un’epidemia di colera ormai dilagante. Le due fazioni impediscono alle organizzazioni internazionali di portare aiuti umanitari. E la situazione pare lontana dalla sua conclusione.

Dentro questo incubo c’è spazio anche per un fallimento che ci riguarda: da poco più di un anno, la Nazioni Unite hanno chiuso la propria missione in Sudan su richiesta proprio del Governo sudanese, illegittimo e violento, che ha invitato la comunità internazionale a farsi i fatti propri.

Salvatore Baldari

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