Premessa: l’invio di un contingente militare per il mantenimento della pace tra Ucraina e Russia è possibile unicamente sotto l’egida Onu. Non sono percorribili strade alternative. Ammesso che si voglia arrivare a una tregua, è impossibile immaginare che Kiev o Mosca, ma soprattutto quest’ultima, accettino l’ingresso di soldati stranieri sul territorio conteso se non come Caschi blu. Nato o altre forze intergovernative non sarebbero ammesse. Ciò detto, al Palazzo di Vetro le cose sono tutt’altro che semplici. Un’operazione di peacekeeping deve passare infatti dal Consiglio di Sicurezza. Si tratta di “decisioni sostanziali” che devono ottenere almeno 9 voti favorevoli su 15 e non essere bloccate dal veto di uno dei cinque membri permanenti (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Regno Unito). In caso di voto contrario, l’Assemblea generale potrebbe approvare una sua risoluzione, ma sensibilmente ridimensionata. Si tratterebbe di uno switch dalle missioni militari ai programmi umanitari. Non è questo il caso.

Quindi, il solo posto dove la guerra russo-ucraina può risolta – almeno per qualche tempo – è quell’enorme sala del Consiglio di sicurezza che, da ottant’anni, è testimone delle scene leggendarie della diplomazia internazionale. Dalle foto aeree degli U-2 statunitensi sulle basi dei missili sovietici a Cuba (1962), alle fialette di Colin Powell, che poi si scoprì fossero piene di polvere bianca anziché dell’antrace di Saddam Hussein (2003). Romanticherie a parte, il problema è evidente. Per la prima volta nella storia dell’Onu, una missione di peacekeeping vede coinvolto direttamente uno dei membri permanenti del Consiglio che, per ovvi motivi, potrebbe opporsi. Ed è la Russia. Ma il terreno del veto è scosceso. Storicamente risale a Yalta. Churchill, Stalin e Roosevelt – con Truman che di lì a poco sarebbe subentrato a quest’ultimo – si attribuirono uno strumento inoppugnabile per garantire la stabilità internazionale. Era la regola della Guerra Fredda: per evitare che una crisi locale degenerasse in un disastro nucleare globale, i nemici dovevano trovare un accordo. Unanime.

Nei decenni, lo strumento del veto è stato oggetto di polemiche, in quanto visto come anti-democratico e soprattutto come scudo usato dalle grandi potenze per proteggere i crimini di guerra di cui si macchiavano i loro amici-canaglia. D’altra parte, la Carta delle Nazioni Unite non parla espressamente di veto. L’articolo 27 recita infatti che per le decisioni sostanziali serve il voto favorevole. Altre opzioni sono l’astensione o l’assenza dalla seduta del rappresentante diplomatico in Consiglio. Il mitico seggio vuoto cui ricorreva l’ambasciatore sovietico. Tutte utili per evitare le escalation. Dal 1945 i membri permanenti hanno fatto uso del diritto di veto per 279 volte. Ci sono due casi eclatanti che meritano di essere ricordati. Nel 1982 la risoluzione per una forza di pace in Libano venne bocciata dagli Stati Uniti perché a fianco di Israele. Invece di una missione Onu, venne creata una “Forza multinazionale in Libano” (MNF), composta principalmente da contingenti di Usa, Francia, Italia e Regno Unito, e che si concluse due anni dopo a seguito degli attentati che causarono la morte di oltre 300 soldati americani e francesi. Quindi missione abortita, pace mancata. Nel 1999, invece, furono la Russia e la Cina ad annunciare che avrebbero posto il veto a una risoluzione per la crisi in Kosovo. Fu quindi la Nato a muoversi di sua iniziativa. In questo caso, la guerra non fu proprio evitata.

Volendo, si può aggiungere il caso del Darfur nel 2006. La risoluzione di peacekeeping non venne adottata dal Consiglio di Sicurezza, in quanto il Sudan si rifiutò di far entrare i Caschi blu su quello che considerava un territorio di sua giurisdizione. Questo solleva un altro punto: una missione di peacekeeping può non soltanto rimbalzare contro il veto di un membro permanente, ma anche saltare per il mancato consenso del Paese ospitante. Di successo, almeno sulla carta, sono state le missioni in Africa – Liberia, Costa d’Avorio, Ciad, Somalia – ma anche quella in Afghanistan. Perché un successo “sulla carta”? Perché sì, le forze Onu si mossero. Ma senza risolvere i conflitti. Anzi. La Somalia e l’Afghanistan oggi sono due Stati falliti. La Striscia di Gaza e il Libano, quadranti dove altrettanto l’Onu ha inviato i propri contingenti, sono sulla stessa strada. Le crisi del Sahara occidentale, del Kashmir e di Haiti – solo per citarne alcune – rientrano nella categoria dei “conflitti dimenticati”. Il tutto al costo di almeno 60 miliardi di dollari, spesi dal Palazzo di Vetro nei suoi ottant’anni di lavori, e di 4.200 soldati rimasti uccisi in missione. Bilancio non eccelso per una forza di pace internazionale che, nel 1988, ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace.

Torniamo quindi all’Ucraina e alla Russia. Posto che “no Onu, no tregua”, in che misura si opporrà Mosca a una risoluzione di cui pretenderà di approvare anche la più piccola virgola? Quante volte lascerà vuoto il seggio in Consiglio bloccandone i lavori? E cosa pretenderà in cambio, oltre a quello che già ha chiesto? Ovvio, sono tutte tecniche di logoramento in mano anche a Francia e Regno Unito. Come pure agli Usa di Trump.