La rivoluzione delle costituzioni
L’unica forma “giusta” di violenza è la resistenza. Dalla dichiarazione d’indipendenza al diritto di rovesciare il tiranno

Non si può dire che la Meloni abbia sparso solo schegge di sale con le sue battute trancianti su Ventotene. Alla fine bisognerà riconoscerle il merito di aver costretto un po’ di gente a leggersi il Manifesto di Spinelli, Rossi e Colorni, scassando retoriche e pregiudizi. Tra le accuse mosse al documento, ci sono quelle riferite alla violenza rivoluzionaria, collegata alla sinistra politica, nell’intento dei followers della Presidente che hanno rilanciato la dichiarazione meloniana. Forse non tutti hanno contezza, però, dell’aria che tirava in quel periodo storico a ridosso della caduta del nazifascismo, tempo che quasi coincide con la nascita del diritto internazionale umanitario e delle grandi codificazioni costituzionali.
Poco c’è mancato che anche la nostra Costituzione legittimasse una forma “giusta” di violenza attraverso il riconoscimento del “diritto di resistenza”. Il principio ha a che fare col diritto naturale, che affonda le sue radici nella postura filosofica cristiana. Questa collega la disciplina della convivenza tra gli umani direttamente al divino.
La prima traccia in un testo costituzionale la troviamo, molto prima, nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti di Jefferson e Franklin. I padri fondatori americani intinsero le loro penne d’oca nel calamaio degli Illuministi napoletani – il Filangieri avanti a tutti – per scrivere il famoso preambolo. Questo afferma, tra i suoi principi, che il popolo ha diritto e dovere di rovesciare il governo dispotico se si rende protagonista di «una lunga serie di abusi e di torti». Troviamo un ampio riferimento anche nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789 e, in Italia, nella Repubblica Partenopea del 1799.
Le codificazioni del secolo passato partivano da un bagaglio assai importante, che poteva attingere al diritto naturale, ma anche al concetto laico della sovranità popolare, considerata dalla nostra Costituzione del ‘48. Nel dibattito che si svolse in Assemblea Costituente comparve, a opera del democristiano Dossetti, una proposta che voleva scolpire in Costituzione il diritto-dovere di resistenza, individuale e collettiva. Il tema era destinato ad aprire un dibattito serrato tra culture e posizioni politiche che trovò requie solo con la chiusura dei lavori dell’Assemblea.
Decisamente convinti di dover inserire nell’ordinamento italiano il diritto di resistenza furono invece Aldo Moro, che ne sottolineava anche il valore di dovere e il costituzionalista Mortati. Il principio fu approvato dalla Commissione dei 75 e trovò spazio nel secondo comma dell’art. 50 con questa formulazione: «Quando I pubblici poteri violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressore è diritto-dovere del cittadino». Ma il diritto di resistenza non venne introdotto nell’impianto costituzionale per l’indisponibilità delle posizioni più conservatrici, anche in area democristiana e per una certa tiepidezza da parte dei comunisti. Costantino Mortati – che un quarto di secolo dopo sarebbe tornato sul tema – motivò l’abbandono di questa battaglia, considerando che altre garanzie costituzionali avrebbero potuto tutelare i cittadini di fronte alle degenerazioni del governo. Poi lo stesso Mortati avrebbe spiegato che il diritto alla resistenza restava vivo in Costituzione, ancorché non esplicito, perché poteva essere desunto dal combinato disposto degli articoli 1 e 3 secondo comma. In questi giorni, però, torna alla mente più degli altri quel preambolo di Jefferson, che per la prima volta inserì in un testo costituzionale il diritto di rovesciare il tiranno che infligga una serie di abusi e di torti.
© Riproduzione riservata