L’idea rassicurante che la sicurezza nazionale sia un affare di soldati e confini è ormai superata: oggi difendere una nazione significa misurarsi con una costellazione di minacce visibili e invisibili, dichiarate e occulte, che si muovono lungo le fratture dell’economia globale, dell’informazione digitale e delle tecnologie emergenti.

Non è un caso che il ministro della Difesa Crosetto abbia richiamato l’esigenza di una consapevolezza nuova, citando esplicitamente droni, sistemi d’attacco a basso costo e forme di guerra ibrida che sfuggono alle categorie tradizionali dell’intelligence. Perché la verità è semplice: chi immagina il conflitto come un confronto tra eserciti regolari non ha compreso la trasformazione del potere nel XXI secolo. Oggi, gli attacchi arrivano nei punti più vulnerabili della nostra rete democratica: i cavi sottomarini che portano dati, le reti energetiche interconnesse, le piattaforme digitali dove si formano le opinioni, gli sportelli bancari che gestiscono i risparmi, gli aeroporti e i porti che garantiscono la continuità logistica. Esporre uno di questi punti al rischio significa indebolire il sistema nella sua interezza.

A questo si aggiunge una dimensione più sottile, ma ancora più pericolosa: l’offensiva informativa. Ci sono Paesi che, senza più nascondersi, dichiarano di voler orientare opinioni, influenzare elezioni, generare divisioni interne. Lo fanno attraverso piattaforme digitali, reti di amplificazione automatizzate, deepfake in grado di simulare voci e volti, ma anche tramite strumenti più “analogici”, come le radio locali in alcune aree dell’Africa che diffondono narrazioni costruite ad arte per orientare i movimenti migratori. È una geopolitica silenziosa, che utilizza la vulnerabilità sociale come arma. E non riguarda solo i servizi di intelligence: riguarda la qualità della nostra democrazia. Perché una società che non riconosce più la fonte dell’informazione, che vive in una permanente esposizione emotiva e che non distingue vero e verosimile è una società più facile da manipolare. Le interferenze non cercano di convincere: cercano di confondere, di fiaccare il rapporto tra cittadino e istituzioni, di generare sfiducia. Questo è il vero terreno del conflitto contemporaneo.

L’Italia, in questa cornice, non può più immaginare la sicurezza come un settore, ma come una funzione che integra difesa, diplomazia, tecnologia, finanza e industria. Significa investire nella protezione delle infrastrutture critiche, sviluppare sistemi anti-drone e capacità di contrasto alle minacce ibride, rafforzare l’intelligence economica e finanziaria, costruire un dialogo costante tra settore privato e Stato, perché la sicurezza nazionale non dipende solo dalle caserme, ma anche dai data center, dalle utility, dalle reti portuali e dai centri di ricerca. È una sfida che richiede competenze nuove e una cultura politica diversa, meno legata alla spettacolarizzazione e più alla manutenzione della democrazia. Perché la democrazia è forte se sa leggere il mondo che cambia, non se rimane prigioniera delle sue categorie passate.
E oggi il mondo ci dice una cosa limpida: chi non aggiorna il proprio concetto di sicurezza, prima o poi aggiornerà la propria idea di libertà.

Raffaele Volpi

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