In che modo prende vita un personaggio letterario? Elias Canetti ha scritto che incontra i suoi personaggi solo dopo averli inventati. Ma devo aver scelto l’esempio sbagliato. Ci sarà pure una scintilla a cui rivolgersi nell’incubo della pagina bianca. Credo sia questa: il desiderio. Nella letteratura, come nella vita, non esiste carattere che non agisca dentro l’obbligo di una mancanza, un vuoto, di una frustrazione. Eccoci. È l’assenza di ciò che desideriamo, il suolo su cui cresce qualsiasi storia. In latino desiderare significa senza stella: de-sidus. Viene agli occhi l’immagine di un cielo notturno, attraversato da filamenti di luce a cui rivolgiamo lo sguardo, magari allungando un braccio come a volerle coglierne uno, e costretti invece a restarcene a mani vuote.

La mancanza di possesso, nella vita come in letteratura, contiene già di per sé un’azione. Qualcosa ci interpella da lontano, ci richiama a sé, dato che il desiderio non è mai una scelta, semmai è un inciampo. La ricerca, il preludio a quanto è destinato ad avverarsi oppure no, è la strada dove giù in fondo intravediamo ciò che vorremmo far nostro. È un sentiero fatto di alti e bassi, che può assumere minore importanza rispetto al semplice fatto di aver cominciato il nostro cammino. Agire, tentare e ritentare spinti verso quello che soddisferebbe i nostri bisogni. Il centro di ogni storia, reale o immaginaria, è qui.

Riflettendo su La Signora Dallowey, sul suo diario Virginia Woolf annota: «Questa volta credo di aver scoperto un filone. Spero di estrarne tutto l’oro… E il mio filone d’oro è molto profondo, in gallerie molto tortuose. Devo avanzare penosamente per sfruttarlo, curvarmi, andare a tastoni.» Fare conoscenza dei propri personaggi, e dei desideri che li muovono, è un processo ricco di incognite. Sarà per questo che leggere è il miglior rimedio alla solitudine: quanti di noi possono dire di aver riconosciuto, prima, e aver avverato, poi, i desideri esplosi lungo le fasi della propria vita? E tuttavia, la mancanza è un elemento essenziale. Se Riccardo III fosse nato re, non esisterebbe uno dei più bei drammi di Shakespeare. Così come se Emma Bovary fosse nata a Parigi e non le fosse stato concesso di desiderare una città più travolgente di quella in cui lei, povera, è costretta a vivere con un marito così poco sensuale. In questo, siamo uno specchio perfetto dei personaggi: la nostra e la loro psicologia è innanzitutto il prodotto dei desideri mancati. L’insoddisfazione innesca il conflitto, necessario per dar via al movimento, quel movimento che edificherà la trama. A voler semplificare, la storia della letteratura potrebbe riassumersi in un’unica formula: in cerca del proprio posto nel mondo, l’eroe contrasta o asseconda le sue pulsioni spinto dai desideri. Cosa ne sarebbe di Anna Karenina senza adulterio? Dove andrebbe a finire Julien Sorel senza l’invidia? È in questo interstizio che si plasma un carattere, nella brama di ottenere qualcosa.

Il talento dello scrittore sta nel rendere universale un desiderio soggettivo, legato com’è a uno personaggio e alla sua storia, andando dall’uno a molti per raggiungere la forma di verità più alta in nostro possesso: quella letteraria, menzognera, certo, ma insuperabilmente sincera. Che si tratti di esistenze reali o di finzione, quando una persona o un personaggio vengono accesi dal desiderio, possono dirsi al riparo dalla risacca in cui nella vita si potrebbe procedere anche all’infinito, ma mai nei romanzi. Lasciarsi trascinare dalle cose – la meccanicità del quotidiano –, senza che a muoverci sia una fantasia, un’ambizione o addirittura un sogno, invece di farsi travolgere dal desiderio, atteso, disatteso, espresso, inespresso, morale, immorale, affinché si inneschi l’azione è qualcosa di anti-narrativo. Importante è poi prendere coscienza di quanto non sia decisivo centrare il bersaglio. L’ipotesi o la semplice fantasticheria sono già vita, perché sono azioni, pure se soltanto mentali. Ed essendolo, saranno per sempre ottimo materiale per un romanzo.

Annalisa De Simone

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