Draghi rimette al centro i morti per Covid che Conte aveva rimosso

1. Le dichiarazioni programmatiche del Presidente del Consiglio sono state setacciate dai media per trattenere la sostanza dell’indirizzo politico del suo Governo. Sono così filtrate nella disattenzione quasi generale alcune parole che, già ora e per il solo fatto di essere state dette in Aula, marcano una voluta discontinuità con il precedente Esecutivo.

2. Ascoltiamo Draghi: «Il primo pensiero che vorrei condividere nel chiedere la vostra fiducia riguarda la nostra responsabilità nazionale. Il principale dovere cui siamo chiamati tutti, io per primo come Presidente del Consiglio, è di combattere con ogni mezzo la pandemia e di salvaguardare le vite dei nostri concittadini». Un dovere che non si ferma all’obbligato omaggio per le vittime e che muove dalla contabilità di quanto accaduto. Ne esce un bilancio particolarmente impietoso per l’ex Presidente Conte (benché ringraziato per aver affrontato «una situazione di emergenza sanitaria ed economica come mai era accaduto dall’unità d’Italia»).

Ecco i numeri: «Da quando è esplosa l’epidemia, ci sono stati – e i dati ufficiali sottostimano il fenomeno – 92.522 morti e 2.725.106 cittadini colpiti dal virus». Quanto ai ricoverati in terapia intensiva, «in questo momento sono 2.074». Nel frattempo «l’aspettativa di vita a causa della pandemia è diminuita: fino a 4 o 5 anni nelle zone di maggior contagio e di 1 anno e mezzo o 2 per tutta la popolazione italiana. Un calo simile non si registrava in Italia dai tempi delle guerre mondiali». Lo spartito scelto dal Presidente Conte nelle sue comunicazioni alle Camere del 18-19 gennaio scorso, invece, era stato silente sul numero dei decessi (allora 82.177), dei contagiati e dei malati in terapia intensiva. Un’autentica rimozione, su cui mi sono già interrogato (Il Riformista, 30 gennaio). Riprendo ora il filo di quel ragionamento, alla luce dell’opposto dire del Presidente Draghi e di altre novità sopravvenute.

3. Tra istituzioni e cittadini esiste un rapporto circolare, non formale ma decisivo, che esige dai soggetti investiti di potere verità, trasparenza, assunzione di responsabilità. Avrebbe imposto, dunque, di riconoscere il numero dei morti da covid-19, e ciò che esso significava in termini di accountability per un governo, il Conte-bis, votato a un paradigma immunitario perseguito a tutti i costi: sociali, economici, costituzionali (per l’abuso di d.P.C.M. in deroga alle regole sulla produzione normativa).

A questo dovere, il Premier uscente si è sottratto. Era già accaduto nella conferenza stampa di fine anno quando, riconosciuto nell’Italia uno dei paesi più colpiti dal virus, Conte indicava tra le cause «l’età molto alta della popolazione», il fatto che «si invecchia male», le «abitudini di vita» e la consuetudine degli anziani di vivere con figli e nipoti. Tutti fattori esogeni all’azione del suo Governo, unilateralmente indicata a modello per la comunità internazionale e sempre rivendicata senza esitazioni («Rifarei tutto come prima»). Intendiamoci. Non si tratta, qui, di elevare il Conte-bis a capro espiatorio, assecondando l’ossessione – populista e giustizialista – di individuare fuori da ogni accertamento legale un responsabile per ogni catastrofe. Su eventuali profili di responsabilità penale per quanto accaduto nella prima fase dell’emergenza indaga la Procura di Bergamo, ipotizzando il reato di pandemia colposa. Vedremo.

Semmai, qui interessa ragionare di un diverso tipo di responsabilità: non giuridica, ma politica. È il dover render conto di qualcosa, spiegando perché e come si è agito, esponendosi a un giudizio sui mezzi prescelti e i risultati ottenuti. In una democrazia costituzionale, la responsabilità politica segue il potere politico e viceversa: diversamente, espressioni oggi abusate (dal gergale «io ci metto la faccia» all’inflazionato «ognuno si assuma le proprie responsabilità») sono vuote, perché a costo zero. L’ex Presidente Conte è stato reticente sui morti per covid-19. È venuto meno al dovere di fornire risposte sulla necessità, proporzionalità, adeguatezza delle misure assunte per evitare l’attuale ecatombe. Anche per questo è stato politicamente sanzionato, nella forma più grave possibile: la perdita della carica.

4. L’opposto dire del Presidente Draghi, se non a un cambio di strategia (pregiudicata dalla conferma del Ministro della Salute, ma non del Commissario straordinario né del Capo della Protezione civile), prelude almeno a un cambio di passo partendo da un dato di verità. Ha messo ai blocchi di partenza dell’azione di governo il terribile bilancio di morti, contagiati, ricoverati. Come il suo predecessore, in ultima analisi, sarà misurato su questo.

Oggi, c’è una ragione in più perché sia chiamato a risponderne in futuro. Per la prima volta, la Corte costituzionale ha sospeso l’efficacia di una legge regionale (della Valle d’Aosta) disciplinante la gestione dell’emergenza epidemiologica (ordinanza n. 4/2021). Tale legge, consentendo misure di minor rigore rispetto a quelle statali, può compromettere su base locale, «in modo irreparabile, la salute delle persone e l’interesse pubblico ad una gestione unitaria a livello nazionale della pandemia». Il dato decisivo della vicenda (risolta ora con l’annullamento delle norme impugnate), è nel riconoscimento che «la pandemia in corso ha richiesto e richiede interventi rientranti nella materia della profilassi internazionale di competenza esclusiva dello Stato».

Sullo sfondo, sono ben visibili i poteri sostitutivi del Governo nei confronti di enti territoriali che, con scelte autonome, mettano a rischio l’incolumità e la sicurezza pubblica. Dunque, nel quadro di una leale collaborazione, in pandemia è il Governo ad avere il timone in mano. Finisce qui il gioco del cerino acceso tra esecutivi, statale e regionali, congeniale a uno scarico reciproco di colpe.

5. Ascoltate in Senato le allarmate comunicazioni del Ministro Speranza, il Governo si avvia verso provvedimenti di contrasto al virus assai restrittivi, come dimostra il suo primo d.P.C.M. Quanto più saranno draconiani, tanto più va ribadito che esiste una dignità nella cura ed anche nel morire. E che tale dignità non può essere sacrificata sull’ara di un onnivoro principio di precauzione. Lo ricorda ora il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB) nella sua mozione approvata il 29 gennaio. Il testo si occupa del drammatico isolamento vissuto dai pazienti ricoverati in strutture sanitarie e di terapia intensiva, rammentando come le misure di contenimento abbiano provocato «stati di profonda solitudine». Si evoca la «prova terribile» a cui sono sottoposti i malati terminali, condannati a un congedo dalla vita senza il saluto dei propri cari, a loro volta privati della possibilità di un rito funebre.

Da qui il richiamo del CNB alla «rilevanza della relazione di cura», dove devono coesistere dimensione terapeutica e relazionale. In secondo luogo, il riferimento a «quanto sia radicato nell’esperienza umana l’accompagnamento al morente» e come «il morire in solitudine, quando non sia conseguenza di un’esplicita richiesta, è considerato sinonimo di sofferenza» per chi muore e per chi resta, specie se «impossibilitato ad accompagnare fino alla fine i propri cari». Ecco perché – generalizzando esperienze-pilota in atto – il CNB raccomanda ogni sforzo nelle realtà ospedaliere perché siano garantiti «incontri in presenza», ma anche la possibilità per il malato di scegliere di non ricevere visite (nel timore di contagiare o di essere contagiato oppure, se terminale, preferendo non lasciare di sé «l’immagine della sua sofferenza»).

Laddove l’accesso sia vietato o solo eccezionale, il CNB richiede la possibilità di relazione con il malato attraverso dispositivi tecnologici. È «l’autonomia decisionale del malato [che] va in ogni caso valorizzata», in applicazione delle norme sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento. Prenda nota il Governo, alla voce New Generation EU (dato che la voce MES è scomparsa dai radar): la futura rete ospedaliera dovrà sciogliere tutti i nodi emersi durante la pandemia, con modelli organizzativi flessibili e funzionali ai bisogni dei pazienti.

6. Nel frattempo, le vittime per covid-19 vengono idealmente abbracciate dalle proprie comunità, nel tentativo di elaborare il lutto di tanti attraverso la costruzione di una memoria condivisa. Si intitolano parchi e spazi pubblici in Toscana. Si piantano alberi affiancati da targhe nei comuni dell’Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte. Si creano installazioni commemorative, come al Niguarda di Milano. Sono i tanti memoriali dei troppi caduti nella guerra alla pandemia.

Ricordare si deve, meglio se attraverso segni vivi come le piante, pezzi di futuro e simboli di rinascita. È anche il fine della legge istitutiva di una Giornata nazionale in memoria delle vittime da coronavirus, ferma al Senato. Essere indotti a ricordare, tuttavia, non mette al riparo dalle trappole della memoria imposta erga omnes: la canonizzazione dell’evento ricordato, sottratto così all’analisi critica e sigillato in una sorta di storia ufficiale. L’abuso della memoria che inchioda al passato, paralizza l’agire nel presente e sfiducia il futuro. E infine, il rischio della routine commemorativa: «“Dica, dottore, è vero che vogliono costruire un momumento ai caduti della peste?” / “Lo dice il giornale. Una stele o una lapide”. / “Ci avrei giurato. E faranno pure il discorso”. / “Già li sento: ‘I nostri caduti…’ e poi via a farsi una bella mangiata» (Albert Camus, La peste).

7. Ecco perché il modo migliore per ricordare le vittime della pandemia è onorarle riflettendo «su ciò che non ha funzionato, sulle carenze di sistema, sugli errori da evitare di ripetere» (così il Capo dello Stato, a Bergamo, il 28 giugno 2020). Il catalogo è lungo: dall’iniziale carente approvvigionamento dei dispositivi di protezione individuale, alla scarsa ricettività dei reparti di terapia intensiva. Dall’assenza di protocolli nei servizi di pronto soccorso per evitare il contagio degli operatori sanitari, al mancato aggiornamento del piano antipandemico nazionale. Dalle strategie sul ricorso a tamponi, test rapidi e test sierologici, al piano nazionale di vaccinazione.

Dai mancati provvedimenti di isolamento dei primi focolai (Nembo, Alzano Lombardo), al fallito tracciamento dei contagiati. Dai ritardi dovuti alla frammentazione delle competenze, all’abuso del potere di ordinanza. Dal ruolo dei tanti comitati tecnico-scientifici nei processi di decisione politica, al deficit di capacità produttiva di vaccini in ambito nazionale. È «materia di pubblico interesse» (art. 82 Cost.), su cui il Parlamento può disporre inchieste.

L’alchimia politica che ha dato vita a una maggioranza mai così obesa potrebbe essere d’ostacolo, perché nessuno indaga volentieri su se stesso. Eppure l’appello del Quirinale che ne è all’origine e le parole d’esordio del Presidente Draghi potranno favorire una scelta di responsabilità nazionale: istituire, a tempo debito, una Commissione bicamerale che indaghi su quanto fatto, non fatto, mal fatto. Non per cacciare i responsabili del passato, ma per mettere in sicurezza il futuro.