1. 82.177: questi i decessi per coronavirus in Italia, alla vigilia delle comunicazioni alle camere svolte dal Presidente del Consiglio il 18-19 gennaio. Una cifra enorme, molto superiore alla capienza massima dello stadio di San Siro o dell’Olimpico. Incontrovertibile, diversamente da altri indicatori pandemici. Non riducibile attraverso la distinzione – vagamente eugenetica – tra morti di covid e morti anche di covid ma affetti da pregresse patologie (diremmo mai che un anziano malato, investito sulle strisce pedonali, è morto anche di incidente stradale?). Inequivoca nella sua parabola, che mostra come la seconda ondata abbia fatto più vittime della precedente (cadendo così l’alibi del Paese in prima linea e perciò più duramente colpito). Una cifra che ci colloca tra le nazioni peggiori al mondo per tasso di mortalità in rapporto alla popolazione.

Eppure, di quella cifra non c’è traccia nel resoconto stenografico dell’intervento del premier alla Camera, mentre al Senato le sue uniche parole a verbale sono queste: «Tante famiglie che ci stanno guardando in questo momento stanno soffrendo per la perdita dei propri cari». Tutto qua. La rimozione è sempre spia di un problema irrisolto: qui interessa indagarne le ragioni politiche, le conseguenze e i possibili rimedi, nella convinzione – come scriveva Albert Camus ne La peste – che il numero dei morti in una pandemia è «un dato di fatto. Certo si [può] anche far finta di non vederlo, coprirsi gli occhi e negarlo, ma un dato di fatto ha una forza terribile che prima o poi ha la meglio su tutto».

2. Il silenzio del Presidente del Consiglio serve, innanzitutto, a celare un inadempimento contrattuale, in un’emergenza sanitaria durante la quale – come ha scritto Bernard-Henri Lévy – al vecchio contratto sociale è subentrato un nuovo contratto vitale, con la salute al posto della sicurezza. Un diritto alla salute che l’art. 32 della Costituzione qualifica «fondamentale» e, per questo, elevato dal governo a bene da assicurare a tutti i costi, nell’interesse del singolo e della collettività.

Già questo è un abbaglio interpretativo. In Costituzione non è possibile individuare un diritto che abbia prevalenza assoluta sugli altri, perché tutti – nel loro insieme – sono espressione della dignità umana. La loro tutela deve essere pertanto «sistemica e non frazionata», come insegna la Corte costituzionale; diversamente, l’illimitata espansione di uno solo lo renderebbe “tiranno” tra i diritti della persona. Sulla base di un assunto sbagliato, quindi, è stata edificata al loro interno una «gerarchia sostanziale» (così la costituzionalista Giuditta Brunelli) che ne nega, in radice, il necessario bilanciamento in concreto.

Così assolutizzato, per assicurarne credibilmente il primato la salute è stata ridimensionata a mera assenza di malattia o, ad esser più precisi, di questa specifica malattia, rinviando la prevenzione e la cura di tutte le altre a data da destinarsi. Ma se le biografie personali si riducono a cartelle cliniche, la vita biologica (e la paura di perderla) diventa giocoforza il parametro di giudizio dell’operato del governo. E poiché il dato tragico e vertiginoso dei decessi ne certifica il fallimento, non resta che occultarlo.

3. Quel dato, invece, merita centralità nel discorso pubblico anche per svelarne una seconda dimensione sottaciuta: la scelta di anteporre a tutto l’esigenza immunitaria, infatti, ha decretato le forme del commiato dalla vita biologica.
Durante la pandemia – annota Donatella Di Cesare – «si muore da soli. In una solitudine diversa da quella che accompagna pur sempre gli ultimi momenti. Il virus isola già prima», costringendo per ragioni di profilassi l’esilio dal calore umano dei propri cari. Una separazione disumana, dettata da un’impropria equivalenza tra distanziamento sociale e distanziamento affettivo che genera esclusivamente dolore: quello immaginato dell’assente e quello, lacerante fino al senso di colpa, di chi lo ha forzatamente abbandonato per mai più rivederlo vivo. Così decine di migliaia di persone sono scomparse, in tutti i sensi.

Il principio di massima precauzione ha ipotecato la prima ondata pandemica, consentendo alle ordinanze ministeriali di violare ciò che Michel Foucault indicava come «il punto più segreto dell’esistenza, il più “privato”», dunque inaccessibile al potere politico. Adesso, però, va pretesa dal governo la capacità di coniugare umanità e profilassi, generalizzando – ad esempio – l’esperienza avviata il 22 dicembre dalla giunta toscana: una sua delibera detta linee guida alle Asl e alle strutture socio-sanitarie affinché si dotino di protocolli che autorizzino visite di 15 minuti ai pazienti dalla prognosi infausta a breve, secondo modalità in grado di assicurare la tutela della salute di tutti i ricoverati. Non solo videochiamate su tablet o cellulari: “stanze degli abbracci” che consentano contatti mediati da teli e protezioni; supporto sanitario, psicologico e – se richiesto – spirituale; scelta riservata al malato di quali persone avere vicine nel momento del trapasso.

Si può fare. Dunque si poteva già fare. Certamente andrà fatto per evitare la violazione della dignità nel morire, che si consuma ogni qual volta è imposta un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che possa ritenersi la sola ragionevole e praticabile: è questa – in ultima istanza – la risposta data dai giudici costituzionali agli interrogativi posti dal “caso Cappato” (sent. n. 242/2019). È bastata la disposizione di un dpcm a farne tabula rasa.

4. Diversamente da Enea, dunque, siamo stati obbligati ad abbandonare Anchise, invece di caricarcelo sulle spalle. Peggio ancora: diversamente da Antigone, abbiamo anche obbedito all’ordine di non dare degna sepoltura al corpo di Polinice. Nel tempo della pandemia, infatti, la tumulazione si è risolta «in un gesto di impazienza profilattica» (Bernard-Henri Levy), all’insegna della massima rapidità e della minimizzazione dei rischi. Anche qui, il potere di ordinanza ministeriale ha stretto a lungo la sua presa: dapprima sospendendo le cerimonie funebri, sostituite da anonime e solitarie cremazioni dei cadaveri di morti per covid; poi consentendole «con l’esclusiva partecipazione di congiunti» in numero non superiore a 15 (d.P.C.M. del 26 aprile 2020), arrivando così all’inedito di un governo che dispone – per tutti, e sempre – la priorità dei legami di sangue su ogni altra relazione affettiva (forse che la carica virale di un congiunto è minore o nulla rispetto a quella di un amico?).

Oggi, indipendentemente dal colore della zona (gialla, arancione, rossa), è ovunque consentito partecipare a tumulazioni e sepolture, nel rispetto del distanziamento interpersonale e del divieto di ogni assembramento. Ma fino a ieri, «in nome di un rischio che non era possibile precisare» (Giorgio Agamben), abbiamo accettato l’inaudito antropologico: privare i morti di un rito funebre, religioso o laico che sia, negando ai familiari il conforto della propria comunità, prodromo al lavoro faticoso e graduale di elaborazione del lutto. In ciò trova rispecchiamento l’atteggiamento preferito dalla politica verso i temi del fine-vita: non occuparsene e, se possibile, cancellarli.

5. Riassumendo: nel pandemonio della pandemia non è stato possibile scegliere come morire e con chi farlo: reticente sul numero dei decessi per covid, il Presidente del Consiglio rimuove l’accaduto. L’oblio artificiale che ne deriva non è, però, a costo zero. Come racconta Camus ne La peste, un lutto incompiuto rende «insofferenti al presente, nemici del passato e privi di futuro»: i morti trattengono i vivi in una condizione rancorosa che spinge alla ricerca di un responsabile tra i soggetti investiti di potere.

Servirebbe uno sforzo comune di rielaborazione: non tacere l’accaduto, semmai farne memoria collettiva. Lo ha chiesto il Capo dello Stato – era il 28 giugno – commemorando i morti di covid a Bergamo. Gli ha fatto eco la Camera approvando, il 23 luglio, la proposta di legge per l’«Istituzione di una Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’epidemia da coronavirus», ora all’esame del Senato. Frequente, nei lavori parlamentari, è il richiamo alla necessità di conservare e rinnovare il ricordo dei troppi decessi e – tragedia nella tragedia – delle vittime morte in solitudine o private di degna sepoltura.

La data simbolo prescelta, il 18 marzo, rammenta la notte dello spettrale corteo di mezzi militari carichi di bare in sovrannumero, trasportate da Bergamo verso i forni crematori di altre città. È stato il giorno con il più alto numero di morti su scala nazionale: 2.978. Ma quelle immagini ormai indelebili raccontano anche «di un diritto negato: il rito collettivo del commiato» (Donatella Di Cesare).

6. Commemorare, tuttavia, non basta: la ritualizzazione comandata per legge rischia sempre – negli anni – una solidarietà fabbricata in serie, buona solo a salvare le apparenze. La memoria va storicizzata, riflettendo a fondo sulle carenze e gli errori commessi, per non ripeterli alla prossima emergenza sanitaria.

Nelle sue comunicazioni, il Presidente del Consiglio ha rivendicato la scelta «tutta politica» di tutelare in via prioritaria la salute, individuale e collettiva, anche al fine di preservare il tessuto produttivo del Paese. Ciò che va indagato, però, è il come si è tentato di centrare l’obiettivo. Anche qui, tutte politiche sono state le scelte di non esercitare la competenza esclusiva statale in materia di profilassi internazionale (art. 117, comma 1, lett. q, Cost.), né i poteri sostitutivi nei confronti degli enti territoriali (art. 120, comma 2, Cost.), preferendo una – caotica e atomizzata – cogestione tra tutti i livelli di governo, diluendo così la responsabilità per quanto non fatto o mal fatto. Tutta politica è stata anche la scelta di accantonare le camere e la collegialità dell’esecutivo a favore di un potere normativo d’ordinanza, sottratto ai controlli del Quirinale e della Corte costituzionale.

«La memoria ci carica di responsabilità», ha detto il Capo dello Stato. Responsabilità che andranno accertate, quando il virus incoronato avrà finalmente abdicato, istituendo una commissione d’inchiesta bicamerale su quanto compiuto per contrastare la pandemia e le sue ondate virali. In Francia lo si è già fatto. Commissioni d’inchiesta simili sono state istituite in Liguria, Lombardia, Veneto (mentre Emilia-Romagna e Piemonte hanno deliberato in senso contrario). Alla Camera giacciono due disegni di legge (nn. 2497 e 2453) così orientati.

Nel difendere «a testa alta» l’operato del governo, il premier ha rivendicato lo scrupolo e la consapevolezza delle difficili scelte fatte. Ma la responsabilità politica non guarda alle intenzioni dei titolari di potere: ne giudica l’esercizio in concreto e, soprattutto, i risultati complessivi. La circostanza che, proprio in questi giorni, il governo in carica sia già finito in discarica non fa venir meno il «pubblico interesse» (art. 82, comma 1) che la Costituzione richiede per le materie su cui il Parlamento può disporre inchieste. Farlo, sarebbe il modo migliore per non dimenticare.