A meno di un anno dalle elezioni europee c’è il rischio che il confronto sia tutto politichese e propagandistico, esclusivamente concentrato su quale sarà la maggioranza politica che reggerà le istituzioni dell’Unione e non si riesca invece ad affrontare la grande questione sul tavolo: quale è il futuro dell’Europa e dell’Unione Europea? Grandi incertezze sono all’orizzonte. I cambiamenti epocali in corso, con la loro dimensione e velocità, impattano violentemente il vecchio continente e sottopongono e sottoporranno le economie e le società europee ad uno stress mai visto condizionandone il destino. Problemi strategici e di sicurezza a est e a sud, questione demografica, incertezze sulla prospettiva economica e sulla capacità di essere competitivi con il resto del mondo, conflitti di interessi interni, identità culturali e valori tutto si sta attorcigliando e rimette in discussione il senso e la prospettiva dell’Unione. È come se il Covid prima e la guerra russo-ucraina poi, avessero dettato la fine dell’età dell’oro squarciando il velo sulle enormi questioni di prospettiva che stanno dinanzi all’Europa.

Al di là dell’essere il più grande e ricco mercato del mondo (oltre 450 milioni di consumatori) non ci restano molti altri primati e pesiamo e peseremo sempre meno nella definizione del nuovo ordine mondiale. Ma di ciò non sembra esserci contezza e si continuano ad affrontare i problemi come se fossimo sempre i primi della classe e potessimo noi dire al resto del mondo come si deve fare. Non viene colto il senso dell’urgenza e delle emergenze che ci stanno dinanzi e il declino sembra, per questo, inesorabile.

Ho ritrovato per caso un libro fondamentale scritto da Henry Kissinger quasi dieci anni fa, quando ne aveva 90 (ne ha compiuti 100 da poco), Ordine mondiale, ed. Mondadori, 2015, che mi pare profetico al riguardo. Ne cito qualche brano prima di sviluppare la mia riflessione perché le considerazioni dell’ex segretario di Stato Usa mi sembrano di una chiarezza e di una preveggenza straordinarie. «L’Unione europea lotta per risolvere le sue tensioni interne nel perseguimento dei principi e degli obiettivi dai quali è guidata. In tale contesto, procede nell’unione monetaria pur in presenza di una dispersione fiscale e di una burocrazia che contrasta con la democrazia. In politica estera (e noi potremmo dire oggi nelle politiche ambientali n.d.a.) abbraccia ideali universali senza avere i mezzi per farli valere, e un’identità cosmopolita che confligge con le fedeltà nazionali, mentre l’unità europea è accompagnata da linee di frattura est-ovest e nord-sud e da un atteggiamento ecumenico nei confronti dei movimenti autonomistici (catalano, bavarese, scozzese ecc.) che mettono in discussione l’integrità degli stati. Il “modello sociale” europeo dipende dal dinamismo dei mercati ma ne è anche messo in crisi. Le politiche dell’Unione patrocinano un’apertura tollerante, che si avvicina alla riluttanza ad affermare i valori caratteristici dell’Occidente, proprio mentre gli stati membri praticano politiche alimentate dai timori di influenze non europee».

«L’Europa è tornata all’interrogativo da cui era partita ma ora esso ha una portata globale. Quale ordine internazionale può essere ricavato da aspirazioni contrastanti e da tendenze contradditorie? Quando sorreggeva un sistema globale, l’Europa era una rappresentazione del concetto dominante di ordine mondiale. I suoi uomini di Stato progettavano le strutture internazionali e le prescrivevano al resto del mondo. Oggi la natura dell’ordine mondiale emergente è essa stessa in discussione e regioni esterne all’Europa avranno una parte determinante nel definirne le caratteristiche. In un mondo in cui le strutture continentali come l’America, la Cina, l’India e il Brasile hanno già raggiunto la massa critica, l’Europa come affronterà la sua transizione al rango di unità regionale? Avrà un ruolo attivo nella costruzione di un nuovo ordine internazionale, o si consumerà nei suoi problemi interni? La pura e semplice strategia dell’equilibrio di potere, propria delle tradizionali grande potenze europee, è preclusa dalle realtà geopolitiche e strategiche contemporanee. L’Europa che meno di un secolo fa aveva quasi il monopolio della progettazione dell’ordine globale, corre il pericolo di tagliarsi fuori dalla ricerca contemporanea dell’ordine mondiale, identificando la propria costruzione interna con il proprio fine geopolitico fondamentale.

L’Europa, fino ad ora ha gestito il problema dell’integrazione come un problema sostanzialmente burocratico di aumento delle competenze dei vari organismi amministrativi europei, in altre parole di un’elaborazione di ciò che è già noto. In futuro ciò non sarà più sufficiente…». E ancora «L’Europa si trova quindi sospesa tra un passato che cerca di superare e un futuro che non ha ancora definito».

Se questo è il contesto, e purtroppo lo è, è chiaro ormai a tutti che l’approccio amministrativo e iper-regolatorio che ha informato l’azione delle burocrazie guardiane di Bruxelles, che a poco a poco si sono sostituite alla politica, non regge più. L’apoteosi di questo approccio è rappresentata dall’agenda dettata dalla Commissione per la transizione energetica. Un’agenda di obiettivi totalmente irraggiungibili con percorsi impervi che rischiano di provocare una drammatica caduta di competitività dell’industria europea e conseguenti, gravi, processi di deindustrializzazione. Quos Deus perdere vult, dementat prius. Vecchia frase latina che potremmo tradurre «Coloro che Dio vuol portare alla rovina prima li priva di senno».

Come dimostrerà la storia sul tema della transizione energetica e sulle politiche contro il climat change l’appannamento europeo è stato totale. Ma come è possibile che un’area come l’Europa, che conta meno dell’8% di tutte le emissioni di CO2 del globo, emissioni in continua diminuzione per ragioni demografiche e di distribuzione del PIL, pretenda, con presunzione e superbia del tutto ingiustificate, di essere l’esempio per il resto del mondo proponendo obiettivi estremi e irraggiungibili? Perché sono state assunte decisioni così astratte e radicali che metteranno in grave crisi gli equilibri economici e sociali del continente senza ottenere nulla rispetto alla riduzione di emissioni planetarie che di anno in anno continuano a crescere in tutte le altre parti del globo? Perché si sono create nuove dipendenze geo-strategiche in particolare verso la Cina nella rincorsa ad un unico modello di decarbonizzazione che è quello elettrico? Come al solito l’onda travolge tutto. È stato così anche nella fase della globalizzazione spinta dove eccessi finanziari e mercatistici sono stati protagonisti anche delle politiche europee dimenticando le conseguenze sociali sui ceti colpiti dai venti impetuosi della globalizzazione stessa. Salvo riconoscere dopo che sì in effetti, ci sono stati eccessi che dovevano essere governati.

Sarà così anche per gli eccessi e gli estremismi delle politiche di transizione energetica imposte dalla Commissione e dal Parlamento europeo. Prima o poi si riconosceranno gli errori ma sarà troppo tardi. Un altro esempio dell’appannamento europeo al riguardo? La grave crisi della prima economia europea, quella tedesca, che ha visto il suo modello di business degli ultimi 30 anni (approvvigionamento di gas a basso costo dalla Russia e interscambio monstre con la Cina) entrare in una profonda crisi. La Germania oggi soffre e sbanda e sembra aver smarrito la capacità di definirne un nuovo modello. Si è calcolato che in quel Paese, chiuse le centrali a carbone e quelle nucleari (nonostante queste siano totalmente carbon free) mancheranno nel 2030, che è domani mattina, 150 di Giga di potenza elettrica. Si è calcolato che per riempire questo buco sarebbe necessario costruire, da qui alla fine del decennio, 43 campi di calcio al giorno di pannelli fotovoltaici! I tedeschi stanno scoprendo che il vento del mare del Nord, sia pure potente e continuo, non può bastare a soddisfare la domanda di energia della prima economia e della prima industria manifatturiera del continente. E allora? Qualcosa succederà, qualcosa va cambiato vedremo cosa, per ora la direzione non è chiara.

Altro esempio, l’industria dell’acciaio di cui la Germania è il primo produttore europeo e l’Italia il secondo. In Europa si producono 150 milioni di tonnellate l’anno di acciaio suddivise tra prodotti lunghi e prodotti piani. 90 milioni di tonnellate, soprattutto prodotti piani (nastri e lamiere) sono prodotte con il carbone, 60 milioni soprattutto prodotti lunghi (tondo, travi, filo e laminati mercantili) con il forno elettrico. Il problema è cosa fare dell’acciaio prodotto con il carbone fondamentale per qualità soprattutto per l’industria dell’auto ma ad alta emissione di CO2. Nessuno ci ha pensato. Convertire queste produzioni di acciaio fatto con il carbone in acciaio fatto con il forno elettrico? Giusto. Il giochetto costa secondo Eurofer (l’organizzazione dei siderurgici europei) 1 miliardo di euro di investimenti per ogni milione di acciaio riconvertito alla filiera elettrica. Supponiamo che si faccia almeno per la metà e cioè 45 milioni di tonnellate; significa spendere 45/50 miliardi di euro. Chi ce li mette? Non si sa, la Commissione finora non ha previsto nessun aiuto o fondo per questo. E gli altri 45 milioni di produzione non riconvertiti? Spariranno, verranno chiusi. Infatti per ogni tonnellata di acciaio prodotta con il carbone si emettono 2 tonnellate di CO2. Dal 2026 non ci saranno più assegnazione di quote gratuite alle industri emettitrici. Ciò significa che chi emette dovrà comprarsi le quote. 45 milioni di tonnellate di acciaio prodotte con il carbone significano 90 milioni di tonnellate di certificati di CO2 da acquistare. Oggi le CO2 valgono 100 euro alla tonnellata. 90 milioni per 100 euro vuol dire 9 miliardi di euro l’anno da dividere su 45 milioni di tonnellata significa 200 euro per ogni tonnellata di acciaio prodotto, il 35-40% di costo in più rispetto al costo dei concorrenti extraeuropei. Svantaggio competitivo impossibile da sostenere e quindi chiusure. Per gli altri settori dell’industria di base, chimica, cemento, carta, ceramica, vetro ecc., che reggono le filiere manifatturiere a valle, è la stessa cosa.  Nessuno ha previsto come accompagnarli nella transizione e molte aziende spariranno.

L’isteria ecologista della Commissione e del Parlamento europeo è stata incardinata nei piani verdi Fit for 55 e REpowerEU disegnati senza aver la benché minima idea della loro reale fattibilità e degli effetti disastrosi che ne deriveranno sull’industria e sull’occupazione. È il modello Timmermans, il socialista olandese che parla un italiano perfetto, Vice-Presidente della Commissione con delega alla transizione che è stato l’alfiere e il gestore dell’estremismo ideologico che ha partorito questi piani.
La nuova legislatura europea porterà una visione più realistica alla transizione energetica? Si vedrà. Per ora appare sempre più chiaro che l’ approccio attuale alla Timmermans non regge ma un nuovo modello, che non rinnega la necessità di intervenire sul cambiamento climatico, ma che decide di farlo in maniera più pragmatica e razionale, sembra ancora lontano.

Massimo Decimo Meridio

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