Giustizia
Emergenza carceri , l’indulto è una soluzione non più rinunciabile: una misura per garantire rispetto della dignità e più sicurezza sociale
La parola indulto, legata al termine comprensione, ritorna insistentemente nel dibattito pubblico. D’altro canto, se intendiamo davvero comprendere quanto accade nelle carceri, siamo costretti a ricorrere a quell’istituto. Dinanzi alle vergognose condizioni in cui 64.000 detenuti circa si trovano abbandonati dentro celle malsane che a malapena dovrebbero contenerne solo 46.000, dobbiamo avventurarci alla ricerca di una onorevole via d’uscita per lo Stato italiano.
Nelle ultime settimane, diverse voci istituzionali hanno rivolto un accorato appello per un provvedimento di clemenza, quale esso sia. Una doverosa boccata d’ossigeno per il sistema penitenziario. Sia chiaro, clemenza per la Repubblica italiana, responsabile della disumanità e del degrado, scaricati sui ristretti nelle carceri. Dopo il Presidente della Repubblica, indignato per le condizioni inaccettabili di quei luoghi in cui viene sistematicamente cancellato il senso – ammesso che ne abbia ancora uno – della pena detentiva, anche il Presidente del Senato è tornato a invocare una misura, pur minimale, in grado di fare uscire dal carcere gli oltre 15.000 in espiazione pena inferiore ai due anni, per reati di non particolare allarme sociale. Il c.d. mini-indulto. Persino Papa Leone, durante l’omelia per lo straordinario Giubileo dei detenuti, ha rivolto un accorato appello perché “nessuno vada perduto”.
Quando, però, si leva forte il grido sull’urgenza di un intervento straordinario e immediato, si registra una reazione contraria, basata su falsi presupposti. Così, alle parole del Presidente La Russa, si contrappone il sottosegretario Mantovano, nel propinarci la solita minestra riscaldata, del tutto inefficace, dell’edilizia penitenziaria. All’appello del Garante dei detenuti, nel rilanciare, per la prima volta, l’approvazione di un indulto, il viceministro Sisto risponde sulla inopportunità di misure clemenziali, ritenute, a torto, controproducenti in termini di recidiva, pari – ma è un clamoroso abbaglio – all’87%.
I dati del passato e i numeri di oggi, però, smentiscono, sia la soluzione dell’edilizia penitenziaria, sia lo sbandierato aumento della recidiva. Numerosi sono gli studi sull’efficacia delle misure adottate, in passato, per affrontare la criticità del sovraffollamento, oggi in paurosa crescita. La più deludente e la più costosa è stata il piano-carceri. A fronte di 21.700 nuovi posti, previsti negli anni 2010-2014, ne sono stati realizzati solo 4.415. E ancora oggi, si parla di 10.000 posti in più entro la fine del 2027, omettendo, però di considerare che la popolazione detentiva crescerà, nello stesso periodo, quantomeno di ulteriori 3.000 unità, portando, così, il numero dei ristretti in eccesso ad oltre 20.000, sempre che si rispettino i programmi di già irrealizzabili.
Quanto alla recidiva, i dati ufficiali dicono che, nei primi tre anni dell’ultimo indulto risalente oramai al 2006, sugli oltre 28.000 detenuti in uscita, circa 8.000, nello stesso periodo, ne sono rientrati, con un tasso di recidiva pari al 31%. Di gran lunga inferiore rispetto all’attuale ricaduta nel reato superiore al 70%.
L’indulto, piaccia o no, rappresenta davvero la misura di impatto immediato, in grado di garantire, da subito, oltre che il rispetto della dignità dei detenuti, una maggiore sicurezza sociale. Nessuna forza politica, però, riesce, senza strumentalizzare questa vergogna collettiva, a imporre all’ordine del giorno del dibattito l’assunzione di straordinarie e immediate misure in grado di alleggerire il carico umanitario delle carceri. Nemmeno le notizie che giungono, giorno dopo giorno, dai penitenziari italiani e che descrivono un sistema pronto a collassare con conseguenze imprevedibili.
Noi, comunque, abbiamo il dovere di alimentare il dibattito, perché l’indulto resta la principale risposta che deve accompagnare un piano di riforma organico della esecuzione penale. Mutuando le parole del Presidente Napolitano, nel suo eccezionale messaggio alle Camere nel 2013, siamo «di fronte a precisi obblighi di natura costituzionale e all’imperativo – morale e giuridico – di assicurare un civile stato di governo della realtà carceraria». Diversamente, finiremo presto, ancora una volta, ad essere condannati dalla CEDU, travolgendo così ogni pur minimo livello di civiltà e dignità collettiva, già compromesso nel nome di una ignobile e ingiustificabile concezione distorta della pena e della giustizia.
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