È ben noto nelle neuroscienze che quando il sistema della paura del cervello è attivo, la sua capacità di esplorare, innovare e assumersi rischi diminuisce. Se l’obiettivo è spingere lavoratori e imprese a sperimentare e a trovare il modo migliore per implementare l’intelligenza artificiale, instillare ansia o minacciare di esclusione non è la strada giusta.

Lo conferma anche la ricerca empirica: uno studio sull’adozione della tecnologia da parte delle microimprese del Regno Unito negli anni 2010 (sebbene si trattasse di una generazione precedente di IA, non generativa) ha rilevato che le aziende che hanno scelto di adottare strumenti di intelligenza artificiale hanno goduto di una maggiore capacità di innovazione successiva, indipendentemente dal fatto che fossero “first mover” o “second mover”. In altre parole, non è detto che partire per primi garantisca sempre il successo, né che muoversi dopo significhi restare irrimediabilmente indietro.
Eppure, un tono di minaccia si è insinuato nel linguaggio altrimenti ottimistico di chi promuove l’adozione dell’IA. Lo si percepisce nella retorica del ministro della tecnologia britannico Peter Kyle, che questo mese ha detto a lavoratori e aziende: «Agite ora e prospererete in futuro. Non fatelo, e penso che alcune persone rimarranno indietro».

Lo si ritrova nel marketing di software house come Salesforce: «Le aziende che non sfruttano l’intelligenza artificiale nel loro business rischiano di rimanere indietro». E persino nel modo in cui certi amministratori delegati comunicano con i dipendenti. «L’intelligenza artificiale sta arrivando per i vostri posti di lavoro. Siamo tutti condannati? Non tutti, ma chi non capirà rapidamente la nuova realtà, sì», ha scritto il CEO di Fiverr Micha Kaufman in una nota interna. Ma è davvero vero che le uniche due opzioni disponibili siano “agire subito” o essere “lasciati indietro (e dunque condannati)?” Naturalmente, esiste il cosiddetto vantaggio del “first mover”.

Chi si affretta a installare sistemi di intelligenza artificiale, ad esempio agenti autonomi, potrebbe ridurre i costi e aumentare la produttività, conquistando una quota di mercato maggiore. Può inoltre collaborare più da vicino con i fornitori di tecnologia, adattando i sistemi alle proprie esigenze, e ottenere la reputazione di “pioniere”, utile soprattutto nei settori a contatto diretto con i clienti.

Ma non bisogna dimenticare il cosiddetto vantaggio del second mover. In molti casi, osservare chi ha corso per primo permette di evitare errori e vicoli ciechi, riducendo i rischi e scegliendo soluzioni più solide. Non a caso Facebook superò MySpace, Google Ask Jeeves: la storia dell’innovazione è costellata di secondi arrivati che hanno imparato dalle cadute dei pionieri. Anche nel campo dell’IA agentica, come ha osservato un dirigente in una recente tavola rotonda, il vantaggio del “secondo arrivato” potrebbe rivelarsi persino più forte.

Un rapporto di McKinsey, pur promuovendo l’adozione di IA agentica, mette in guardia contro rischi come l’”autonomia incontrollata”, la scarsa osservabilità dei sistemi, l’aumento della superficie di attacco informatico, la duplicazione e proliferazione degli agenti. Proprio per questo, un approccio meno precipitato e più riflessivo può ridurre esposizioni dannose e vincoli tecnologici con fornitori che, nel tempo, si rivelano inadatti. In realtà, il messaggio “agisci subito o perdi l’occasione” assomiglia più a una tecnica di vendita ad alta pressione che a una solida strategia aziendale. Gli e-commerce lo usano da tempo con i cronometri di conto alla rovescia o con i messaggi “ultime ore disponibili”: meccanismi psicologici che funzionano perché inducono scorciatoie mentali, paura di perdere un’occasione, senso di competizione e “effetto carrozzone”.

Che le aziende tecnologiche usino queste strategie non sorprende: hanno prodotti da vendere e ingenti investimenti da recuperare. Ma che politici e leader aziendali facciano eco a questa retorica è molto più problematico. Perché minacciare i lavoratori con lo spettro di un futuro da “esclusi” non favorisce affatto la cultura dell’innovazione: la paura, lo sappiamo, spegne la creatività e frena la sperimentazione. L’Italia, che sconta già ritardi strutturali nell’adozione tecnologica, avrebbe bisogno di una narrativa opposta: non l’urgenza ansiogena, ma la fiducia accompagnata da percorsi di formazione, sperimentazione e condivisione delle buone pratiche. Se vogliamo davvero che l’intelligenza artificiale diventi una leva di crescita, è questo il terreno culturale su cui occorre investire.

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Ho scritto “Opus Gay", un saggio inchiesta su omofobia e morale sessuale cattolica, ho fondato GnamGlam, progetto sull'agroalimentare. Sono tutrice volontaria di minori stranieri non accompagnati e mi interesso da sempre di diritti, immigrazione, ambiente e territorio. Lavoro al The Watcher Post.