Nel Sì&No del Riformista, spazio al dibattito sulla scelta del governo francese di vietare l’abaya nelle scuole. Il Sì di Alessio De Giorgi, direttore web del nostro giornale, secondo il quale “la scuola è e deve continuare ad essere una sorta di campo neutro di gioco, in cui si lasciano a casa i fondamentalismi, gli integralismi e per l’appunto le polarizzazioni”. Contrario Filippo Campiotti, Italia Viva che punta i riglettori sulla laicità: “Deve significare che ognuno sia libero di credere e di esprimersi come ritiene, che ognuno possa essere ciò che è, fino in fondo”.

Di seguito il commento di Alessio De Giorgi

La società occidentale si sta progressivamente polarizzando. Questo è un dato di fatto oggettivo, basta leggere le cronache politiche per accorgersene. Dal dibattito acceso sulla violenza di genere in Spagna a quello sulle tematiche LGBT+ nell’Est europeo, dai bandi dei libri nelle biblioteche scolastiche americane alle aberrazioni della cancel culture in giro per l’Occidente, alle caccia alle streghe cui assistiamo quasi ogni giorno sui social contro questo o quello, gli esempi sono plurimi e quotidiani. E la religione è a volte essa stessa oggetto e motore di ulteriore polarizzazione, sia che parliamo delle chiese evangeliche statunitensi, delle tensioni integraliste nelle comunità islamiche che vivono in occidente o degli ebrei ultraortodossi.

La Francia non è da meno, tutt’altro. Nel Paese che da qualche secolo della laicità ha fatto una sua bandiera, un suo pilastro costituzionale, negli ultimi mesi abbiamo assistito all’ennesimo scoppio di forti tensioni sociali e di piazza nel conflitto che è culturale tra periferia e centro, che è economico tra classi disagiate e classi abbiette ma che ha anche caratteristiche legate alle religioni.

In questo quadro la decisione del Ministro francese dell’Istruzione Gabriel Attal a me pare lapalissiana, scontata, quasi ovvia. Naturale. Nel Paese dove spesso a libertà, eguaglianza e fraternità è stata aggiunta la laicità, è evidente che la scuola – terreno per antonomasia di formazione dei giovani e delle future classi dirigenti – non possa che essere laica. E la laicità presuppone l’assenza di simboli religiosi vistosi. Perché la scuola è e deve continuare ad essere – specie in un momento in cui per l’appunto le dinamiche culturali delle società moderne tendono a polarizzarsi – una sorta di campo neutro di gioco, in cui si lasciano a casa i fondamentalismi, gli integralismi e per l’appunto le polarizzazioni. Religiosi ma non solo: di qualunque altro genere. Perché, come gli adulti davanti alla legge, nella scuola i ragazzi devono essere tutti uguali: senza voler ritornare all’obbligo delle divise (nate per garantire un abbigliamento decoroso a chi non aveva le possibilità economiche per comprarlo, divennero più tardi occasione di visibile equiparazione tra ricchi e poveri), è evidente che un indumento o un segno vistoso legato alla tua religione ti qualifica, ti contraddistingue e può anche isolarti rispetto ai compagni, marchiandoti a fuoco per il tempo della tua permanenza scolastica.

E infine perché non stiamo parlando di adulti, ma di ragazzi la cui scelta di indossare un vistoso abito o simbolo religioso viene quasi spesso imposta di fatto dai genitori e dall’ambiente familiare in cui crescono: garantire loro uno spazio di crescita neutro significa offrire un’opportunità di vedere e vivere un mondo altro, laico per l’appunto, per prendere poi una volta cresciuti la strada che vorranno con maggiore libertà. Anche perché stiamo quasi sempre parlando di abiti femminili, più raramente di abiti maschili: non è un caso, infatti, che quegli abiti siano spesso occasione e motore di costrizione, di soggiogamento, che è tutto il contrario del ruolo di emancipazione culturale e sociale che la scuola può e deve avere. Il caso Saman, che tristemente ritorna in questi giorni nelle cronache nazionali, ci ricorda che una necessità di garantire spazi di libertà extra familiari esiste eccome.

Si dirà che la scuola deve valorizzare le differenze tra le persone e che questa scelta le annulla. Certo, siamo totalmente d’accordo: le differenze sono e devono restare un valore nelle scuole di ogni ordine e grado. Le differenze però non si valorizzano marchiando a priori le persone con un abito o con un simbolo, ma raccontandole, insegnandole, spiegandole. In modo neutro come neutro deve essere l’insegnamento. E poco importa che queste differenze siano religiose, culturali, politiche o legate a stili di vita, orientamenti sessuali o condizioni fisiche ed economiche.

Se non è la scuola a fare questi sforzi chi li fa? Se non è la scuola a creare queste occasioni di crescita neutra e laica, chi ci pensa? È la scuola (e quindi la cultura) che ha il compito di frenare la polarizzazione crescente, di creare occasioni di dialogo e di confronto, di evitare che crescano generazioni che non siano più capaci di parlarsi tra loro al di là delle loro differenze. Ne va del futuro delle nuove generazioni. E della loro libertà di scegliere.

Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva