In un momento segnato da crescenti sfide per l’Europa, il dibattito sull’identità e sulla missione dell’Unione torna al centro. Difesa comune, debito europeo, autonomia tecnologica, ruolo delle parti sociali sono alcune delle questioni aperte di cui abbiamo parlato con Tiziano Treu, giuslavorista, già ministro del Lavoro e presidente del CNEL, profondo conoscitore di quel modello sociale dell’Unione che la congiuntura internazionale mette oggi alla prova.

Il quadro internazionale sembra porre l’Unione Europea davanti a un bivio: da un lato c’è chi teme un ritorno forte degli Stati nazionali, dall’altro chi intravede un’occasione d’integrazione comunitaria. Qual è la sua lettura?
«La storia insegna che sono le crisi a spingere l’Europa a fare passi in avanti in senso comunitario. Le sfide globali – economiche, climatiche, militari – non possono essere affrontate efficacemente da singoli Stati. Occorre rafforzare l’unità politica e rendere più efficace il funzionamento dell’Unione, ad esempio superando il principio dell’unanimità che paralizza la capacità decisionale. La coesione deve diventare strategia».

Di fronte alla minaccia dei dazi Usa al 30%, osservatori come Jamie Dimon parlano di un’opportunità per l’Europa per rendersi più coesa. È d’accordo?
«I dazi hanno effetti distorsivi, sia per l’economia europea sia per l’equilibrio globale. Tuttavia, come spesso accade, una minaccia esterna può innescare una presa di coscienza. L’Europa è chiamata a diversificare i propri mercati finali, a rafforzare il consumo interno, a superare le barriere ancora presenti nel mercato unico che secondo le stime del Fmi pesano fino al 45% per le merci e oltre il 100% per i servizi».

Come guarda al dibattito sulla difesa comune?
«Storicamente, l’Unione ha costruito il suo impianto partendo dal mercato unico, senza mai dotarsi di una vera politica estera e di difesa. La situazione attuale, segnata da minacce globali e instabilità ai confini, impone una svolta. I dati sono eloquenti: sommando le spese militari dei 27 Stati membri, l’Europa raggiunge budget comparabili a quelle di potenze globali come la Russia. Ma senza un coordinamento la spesa è frammentata, inefficiente».

L’obiezione che si solleva spesso è che una spesa maggiore in ambito militare rischia di sottrarre risorse al “pilastro sociale” dell’Unione. Rischio reale?
«Decisamente. La chiave sta nell’affrontare la questione a livello nazionale ma in una logica europea. Se ogni Stato si muove da solo, chi ha meno margini fiscali – come l’Italia – rischia di dover scegliere tra welfare e sicurezza. Diverso è se la difesa viene finanziata con strumenti comuni. Il Next Generation EU ha dimostrato che è possibile fare scelte solidali e ambiziose. Già lo avevamo visto con l’approvvigionamento dei vaccini. Ma serve aumentare le dimensioni del bilancio comunitario, oggi fermo all’1% del prodotto nazionale lordo degli Stati UE, liberandolo dalle distorsioni – penso all’eccessiva quota destinata all’agricoltura – e orientandone la spesa verso le priorità».

Che ruolo possono giocare i rapporti con la Gran Bretagna, che sembra ricostruire i legami con l’Europa anche sul piano militare?
«La Brexit è stata un errore e da subito si è cercato di mantenere una certa cooperazione. L’ultimo esempio è l’intesa tra Francia e Gran Bretagna sulla difesa, che prevede la messa in comune di risorse militari e addirittura della deterrenza nucleare a vantaggio dell’Unione. È una forma di “rientro laterale”, la sfida è rendere strutturale questa cooperazione, superando il protagonismo degli Stati».

La visione di von der Leyen su green e digitale è ancora sostenibile davanti al mutato quadro geopolitico?
«Le transizioni sono irrinunciabili, ma non basta fissare obiettivi: servono strumenti concreti per accompagnare milioni di lavoratori e imprese. L’Europa nasce intorno al mercato, lasciando il sociale agli Stati, secondo la massima “Smith a Bruxelles, Beveridge negli Stati”. Oggi serve garantire la tenuta sociale dell’Unione e torniamo al nodo delle risorse da mettere in comune. È una questione di democrazia sociale».

Democrazia sociale?
«Lo spiega Letta nel suo rapporto: milioni di europei hanno la percezione che il mercato unico abbia avvantaggiato solo alcuni. La promessa della shared prosperity è rimasta delusa, il che erode il consenso verso le istituzioni europee e favorisce le derive del nazionalismo. Per questo non è sostenibile oggi l’Europa del mercato e quella della difesa, senza l’Europa del sociale».

Lorenzo Benassi Roversi

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