Il biennio ‘68-’69, la grande eresia che fu sconfitta

Uno dei fattori che hanno portato, se non alla sconfitta del movimento rivoluzionario, certo all’esaurimento della sua fase propulsiva è stato proprio la tentazione della reductio ad unum. E questa cosa ha radici profonde: non la si può considerare semplicemente il frutto della politica contingente, ma una propensione che la politica rivoluzionaria ha dentro di sé, cioè la vocazione all’esito totalitario. Il passaggio da totalizzante a totalitario è un passaggio scivoloso, in cui la politica sistematicamente cade o può cadere.

Quanto più grande è l’ambizione che essa esprime, tanto maggiore è la sua propensione a farsi entità totale. Ora, io penso che noi siamo caduti in questo momento di grande crisi non in ragione del processo rivoluzionario moderno, ma a causa del suo smacco; e il suo smacco è stato determinato dalla incapacità di innestare sulla tradizione rivoluzionaria del Novecento una nuova idea di rivoluzione della quale pure si sono intravisti i frammenti nella vicenda mondiale.

Questi frammenti, preziosi ma insufficienti a fertilizzare un nuovo campo, sono emersi in quel momento di rottura che ha segnato la fase conclusiva del Novecento in Occidente e che è stato il biennio ’68-’69. La risposta operaia e studentesca partì dall’università di Berkeley per arrivare a Berlino, Parigi, Roma, Milano e incontrò una nuova stagione della lotta di classe che guardava ben poco al modello sovietico. Infatti si può dire che il secondo dopoguerra, fino appunto al ’68, è dominato dall’idea di un processo rivoluzionario per espansione della conquista bolscevica e per le vie nazionali al socialismo: quell’impianto, che ideologicamente viene chiamato marxismo-leninismo, ha costituito, pur con le sue molte forme eterodosse, la spina dorsale politico-culturale del secolo. Il biennio ’68-’69 contiene l’eresia.

Mette in discussione il sistema attraverso la riscoperta di un’altra umanità. Non a caso si affermano in quel periodo scuole come quella di Francoforte che rappresentano una linea di significativa diversità rispetto all’impianto ideologico fondamentale, rispetto quindi alla vulgata marxiana. Io ho conosciuto di persona importanti intellettuali del movimento operaio, la diffidenza dei quali verso la psicanalisi, la sociologia e le altre nuove discipline che si andavano affermando in quel periodo era impressionante, perché appunto la rivoluzione era stata circoscritta in quel campo segnato da un’ideologia. Ora quelle rigidità vengono superate, poi la comparsa del femminismo e dell’ecologismo faranno il resto. Il biennio ’68-’69 innova gli schemi del passato introducendo forme e pratiche nuove di cultura rivoluzionaria.

Come si sarebbe potuto, altrimenti, interloquire con il disordine creativo di quegli anni? E quale enorme scarto fu compiuto, a seguire, dalla rivoluzione culturale femminista, con il primato della persona e l’affermazione della diversità tra uomo e donna? Questo elemento, nella tradizione del Novecento, non c’è: anche il grande movimento di lotta delle donne era stato un processo emancipatorio, che mirava a stabilire l’uguaglianza tra i sessi, all’acquisizione di pari diritti sul lavoro e nella società, non conteneva quella valorizzazione della specificità di genere che fu invece il vessillo del femminismo. E potremmo andare avanti citando i mille rivoli della rielaborazione critica, fino ad arrivare a Foucault.

Vediamo bene, quindi, come nella fase conclusiva del ciclo rivoluzionario del Novecento si sia introdotto un elemento di discontinuità gigantesco: non ha costruito un nuovo sistema, e forse lo negava, ma certo ha scosso nelle fondamenta l’edificio rivoluzionario precedente. Fu un fenomeno di straordinaria ampiezza e di portata immensa, che incrociò anche i movimenti della pace. Si consideri la forza della campagna di denuncia contro la guerra imperialistica americana in Vietnam, che fece cultura, diventò espressione artistica, invase il territorio della rivoluzione. Fu di fatto una seconda rivoluzione. Ma perché, nel definire l’orizzonte storico, mi sento di parlare di fase conclusiva? Perché quel movimento perde.

Quell’ultima ricerca rivoluzionaria che ha camminato sulle gambe delle donne e degli uomini, con le sue enormi conquiste sul terreno economico, sociale e dei diritti della persona (basti pensare, negli anni Settanta, all’abbattimento dei muri dei manicomi), quella costruzione così innovativa che non è incapsulabile nel ciclo precedente, su cui pure ha voluto costituire un innesto, viene sconfitta sul campo, sia nel conflitto sociale che in quello politico e in quello culturale. Dunque, ti proporrei di riflettere innanzitutto su questo: che noi non veniamo dopo l’esaurimento della spinta propulsiva, ma dopo la sconfitta dell’ultima reinvenzione della rivoluzione come è stata pensata nel ciclo del Novecento. Il secondo punto che vorrei evidenziare è che i soggetti, dopo questa sconfitta, cambiano natura.

Il movimento operaio, secondo me, è stato l’ultima grande interpretazione della politica forte e ambiziosa di futuro, e bada che non parlo della cultura rivoluzionaria in astratto, del marxismo, cui pure io sono debitore, ma concretamente della costruzione storica del movimento operaio e delle sue forme organizzate. (…) Ecco, questa costruzione viene sconfitta, e gli eredi l’abbandonano totalmente. Abbandonano la doppiezza e diventano “di questo mondo”. L’ipotesi rivoluzionaria in Occidente è finita, o almeno così pensano le forze della sinistra politica. Il Novecento, in tutte le sue forme, è finito. Ed è finito, lo ripeto, con un fallimento a Est e con una sconfitta a Ovest.

La sconfitta avrebbe ancora consentito di risollevarsi, di dire heri dicebamus, ma la mutazione genetica delle forze eredi della rivoluzione lo ha nei fatti impedito. Così il neocapitalismo trionfante ha sviluppato una tendenza assolutamente totalitaria: non c’è più altro che il suo sistema mondo, non c’è più un angolo in cui rifugiarsi, ovunque e in ogni campo esso si espande per imporre non soltanto il suo pensiero, ma il suo modo di essere. Gli individui diventano parte di un ingranaggio sempre più disumanizzante, destinati a un’alienazione pressoché totale.

C’è stato un dibattito importante tra Franco Rodano e Claudio Napoleoni dove il primo sosteneva la tesi che sto sostenendo io adesso, cioè l’autonomia della politica nel processo rivoluzionario, mentre l’altro sosteneva che senza Dio non c’è rivoluzione, come a dire: “solo Dio ci può salvare”. Ecco, io credo che dobbiamo ripartire dai temi di quel confronto. La possibilità di rigenerare la politica riposa per me sul dialogo: io propendo per l’autonomia della politica, ma penso che non posso costruirla senza dialogare con te che sei di diversa opinione. Lo ribadisco con forza proprio perché credo, come ho già accennato, che una delle ragioni della sconfitta della rivoluzione, oltre alla forza dell’avversario e alla mutazione genetica regressiva delle forze eredi del movimento operaio, sia stata la sua incomprensione del valore del dialogo.

C’è una ricerca del sacro, che non è la mia, ma della quale non posso fare a meno. La non-violenza è secondo me il terreno di questa cultura, e non è un caso che, seppure con tendenze minoritarie, nella fase nascente della globalizzazione, quando i neoconservatori americani proposero la guerra preventiva (che noi traducemmo come guerra permanente), insieme all’istanza pacifista prese piede la ricerca sulla non-violenza.

In Italia assistemmo a un dibattito piuttosto teso, in cui intellettuali di grande rilievo polemizzavano su questo nostro approdo alla non-violenza, ma io credevo allora, e continuo a esser convinto adesso, che quell’integrazione era fondamentale proprio alla luce di quanto già accaduto nella storia: la sconfitta del ciclo precedente mostrava la necessità, per una nuova frontiera rivoluzionaria di guadagnare due elementi che non erano inscritti nella tradizione, e questi due elementi erano appunto il dialogo e la non-violenza.