Il giustizialismo moralista non è giustizia: non servono nuovi reati, serve depenalizzare

All’indomani dell’insediamento del nuovo Governo, nella mia veste di magistrato con trentasei anni di servizio in alcune tra le sedi più complesse della penisola e nelle commissioni parlamentari di inchiesta, ma soprattutto in quella di cittadino che aspira ad una giustizia equa, efficiente e fruibile, avverto la necessità di definire un’agenda di interventi che ritengo doverosi per il sistema giudiziario, e in particolare per il settore penale. Non si tratta dell’ennesima tabella delle “urgenze” a cui far fronte frettolosamente, ma di proposte di ampio respiro, destinate ad agire sinergicamente e di cui sostengo la necessità come ho più volte scritto oltre vent’anni fa.

L’obiettivo non è puntare ad un sistema di giustizialismo salvifico e moralista, ma deve essere la realizzazione di un ordinamento giuridico pragmaticamente al servizio del cittadino, dei suoi diritti e doveri, e dello sviluppo economico e sociale del Paese: sono queste, infatti, le finalità a cui tende anche la nostra Costituzione, un testo tutt’altro che astratto. Volendo enucleare i punti fondamentali, innanzitutto ritengo necessaria una riduzione del catalogo dei reati. Di solito, la depenalizzazione viene giustificata con l’eccessivo carico di lavoro che grava sugli uffici giudiziari per ridurre l’arretrato. Al contrario, la depenalizzazione obbedisce al principio costituzionale di offensività, secondo cui il codice penale deve punire solo se c’è un’offesa veramente grave contro un individuo o direttamente contro un valore fondamentale della società.

Ciò è previsto sia a tutela della libertà come bene supremo della persona, sia in un’ottica di sfruttamento intelligente delle risorse anche economiche della giustizia penale che, in ragione della delicatezza dei diritti che coinvolge, devono essere necessariamente ingenti e ponderate. Eventualmente, perciò, si potrà procedere in altri settori, come quello civile, per assicurare alla vittima il risarcimento dei danni, ma senza che sia necessario, per ogni pur lieve offesa, ricorrere anche a strumenti penali. Altrettanto importante è l’umanizzazione delle pene. Non è questione di buonismo o una tendenza a diminuire la portata afflittiva della pena. È la Costituzione che, ancora pragmaticamente, la richiede, affermando che la pena deve avere una funzione rieducativa, cioè deve tendere a reinserire nella società un soggetto che si è reso conto di non doverne più ledere la pacifica convivenza.

Perché ciò avvenga è necessario che la durata della pena non sia esemplare, ma che il condannato possa percepirla come meritata, perché proporzionata alla gravità effettiva dell’offesa che ha determinato; che le carceri siano luoghi vivibili; che la pena sia effettiva, ma lasci anche la speranza di recupero di una vita normale. Diversamente, le carceri sono destinate a rimanere luoghi criminogeni, dove si “parcheggiano” a spese collettive i detenuti. Il terzo punto, che trova anche esso una giustificazione nella Costituzione, all’articolo 107, è la separazione delle carriere tra magistratura giudicante e pm, in modo che queste due figure siano regolate da norme di garanzia differenti, e non si percepiscano come colleghi appartenenti ad un unico ordine, nonostante i differenti ruoli che svolgono nel processo. Separazione (ovvero divorzio) non significa, però, privare il pm delle connotazioni di indipendenza che la Costituzione assegna.

Significa, piuttosto, operare una differenziazione delle garanzie in ragione della diversa natura delle funzioni e delle diverse modalità con cui esse rischiano di incidere sui diritti dei cittadini. Mentre del giudice si dovrà assicurare innanzitutto l’indipendenza come libertà ed imparzialità del giudizio, per il pm vi deve essere riconoscimento di indipendenza da strumentalizzazioni che il potere esecutivo potrebbe operare per perseguire soggetti a lui sgraditi nonché l’esigenza di impedire che il pm agisca con proprio arbitrio, ignorando le direttive di politica criminale del legislatore. Molte delle proposte avanzate dal nuovo Guardasigilli sono orientate nelle direzioni evidenziate e la sua autorevolezza ed esperienza in lunga carriera giudiziaria, nonché la determinazione e la chiarezza con la quale esprime anche posizioni coraggiose e impopolari, lasciano sperare che finalmente si possa assistere ad un cambio di passo nella direzione auspicata.

Tuttavia, né un singolo ministro né un intero Governo – forse neppure un intero Parlamento – possono fare tutto da soli: al cittadino è richiesto di riflettere ed accogliere l’opportunità di misure come quelle indicate, spesso tacciate di essere una resa della giustizia davanti alla propria inefficienza. Si tratta, invece, non solo di principi di civiltà giuridica, ma anche di elementi necessari al corretto, veloce ed efficace funzionamento della giustizia penale, in quegli snodi in cui il suo intervento è opportuno ed insostituibile. A beneficio della collettività.