E in politica, in realtà, non lo capisco verso chiunque altro. Sebbene sia consapevole che, come qualsiasi contesto umano, è intrisa di personalismi, egocentrismi e di tutte le caratterizzazioni dei sentimenti umani, ho sempre pensato che questi ultimi appartenessero al sottobosco dei rapporti e che non dovessero mai interferire sull’agenda politica. Praticamente un sognatore, di questi tempi. Sì, perché il tempo dei social e delle veline mette in risalto passioni e rancori mortificando i temi. Sospinge il leaderismo all’estremo togliendo ai contenuti e alle skills il valore aggiunto che in politica farebbero la differenza. Cosicché dal “tutti possono dire tutto” si è passati in pochi anni al “tutti sanno tutto”. Sutor, nec ultra crepidam sarebbe oggi più di un monito.
I social non sono solo strumenti di condivisione, ma di vera e propria propaganda nel senso letterale del termine: l’onda mediatica di radio e TV ha il limite insito nell’hardware, ma se invece quest’onda la trasferisci su un modello prêt-à-porter di largo e facile consumo come il telefono elimini ogni limite con la possibilità di raggiungere chiunque. Sin quando a propagarsi è l’informazione fine a se stessa, nessun problema. Se a propagarsi sono i sentimenti, tutto il prisma dei sentimenti popolari, allora occorre giudizio. E ci si affida alla qualità di giudizio dei singoli. Detto in altro modo si è da tempo accettato il rischio del giudizio umano su cose umane. Inutile mutuare per i media l’insegnamento di Sciascia e ricordare quale sacrificio deve e dovrebbe compiere chi si erge al di sopra degli altri. Qui non si tratta della giustizia dei tribunali, dove occorre interpretare la funzione come servizio e respingere uno stato di esaltazione divina che l’uomo-giudice non può e non deve avere, ma del senso di giustizia di ognuno di noi. Coi social il problema non è la legge ma l’etica, la morale. E, in quanto tale, l’uomo non può condannare o salvare la natura umana. Eppure lo fa. Perché il giudizio è l’anticamera del comando e piace a tutti. Un tempo avevamo il bar dello sport che, la domenica, raccoglieva gioie, frustrazioni, denigrazioni, sfottò, discussioni, invidie, gelosie, vendette, ripicche e il gioco di ruolo fra simpatici e antipatici (direbbe De Sica). Ma restava alla domenica e ricominciava la domenica successiva come se la precedente non fosse esistita. Il peggio che poteva capitare dal lunedì al sabato era incontrare uno degli amici della domenica che dinanzi a estranei ti diceva “antani”. Naturalmente stiamo parlando di rapporti fisiologici, perché quelli patologici esistevano anche un tempo e creavano disordini sociali o personali come ne creano oggi. Ma erano casi rari e contenuti. Ora si giudica sui social e non solo la domenica, ma tutti i santi giorni, 24 ore su 24. E non apertamente, eventualità che è rimessa alla coscienza dei singoli, ma anche senza manifestarsi, utilizzando falsi profili perché ci si possa esprimere liberamente e senza controllo. E i media tradizionali, negli ultimi tempi, hanno definitivamente trasferito il quarto potere sui social. Sono nati gli influencer e anche la politica ha traslocato.
Ma torniamo a Matteo. L’ho incontrato la prima volta a settembre 2019. Mi ha ospitato a casa sua per spiegarmi il suo progetto, la sua visione. Prima di allora, Renzi e i renziani erano per me solo un fenomeno mediatico, diventato tale proprio grazie ai social. E, viste le mie reminiscenze analogiche, non mi è mai bastata la conoscenza virtuale di una persona. I fenomeni non fanno per me. L’approccio è stato, quindi, spontaneo e naturale. E Matteo nel giro di poco più di un’ora ha manifestato tutto il suo lato umano: mi ha raccontato della precedente legislatura, dell’esperienza al governo e dei suoi errori. Ero di fronte a lui e non vedevo il premier più giovane della storia repubblicana, ma un giovane, colto e preparato, con una visione politica accattivante perché basata non sul consenso, bensì su progetti di riforma concreti. Un politico che ha fatto cose giuste e cose sbagliate, che non ha timore di apparire fallibile. Ed è proprio questo che mi ha convinto. Più della visione, la capacità di ripartire e rimettersi in discussione. Eppure sui social viene quotidianamente massacrato, anche per la sua ripartenza. “Aveva detto che si sarebbe ritirato se avesse perso il referendum” è il commento più dolce. Per non parlare del body shaming in ciclostile, di indagini giudiziarie che non hanno mai portato a nulla, del gossip di bassa lega. Poco o nulla sui contenuti.
Al netto della coerenza sui proclami traditi, fenomeno peraltro che appartiene a tutti i politici di oggi (dal “mai col partito di Bibbiano” di Di Maio all’“uscirò dal Movimento se si alleerà con i partiti responsabili della distruzione dell’Italia” di Di Battista, passando per il “la mia esperienza di governo terminerà con questo” dello stesso Conte nell’estate 2019), ci si dimentica che Matteo ha fatto quello che nessun altro ha pensato di fare: ha messo da parte le giuste questioni personali a favore dell’Italia, quando ha proposto e supportato l’attuale governo l’estate scorsa (e sfido chiunque pensi che, se si fosse votato quando era ancora nel PD, non avrebbe accresciuto la sua popolarità fra i dem); non ha puntato alla propria carriera politica (nel PD avrebbe continuato di certo a contare su un discreto seguito), quando ha fondato Italia Viva; non ha mai avuto timore, in questo anno e mezzo, di andare controcorrente e di assumersene la responsabilità, quando ha chiesto una sterzata sulla gestione del lockdown, preoccupandosi di scuola e sanità.
E allora, può l’emotività dei social sostituirsi alla politica? Può una velina rappresentare l’unico strumento di dialogo? Possono i media disattendere i contenuti e le idee e concentrarsi solo sull’appeal di un politico e della sua capacità di raccogliere consenso?
Tutto questo, oltre ad impoverire il dibattito, porta il Paese ad una perenne campagna elettorale che destabilizza il sistema. E di fronte alle preoccupazioni e alle conseguenti proposte di Italia Viva, dalla strategia per la vaccinazione alla scrittura del piano per la ricostruzione, invece di reagire e discutere (anche demolendo quelle proposte) gli alleati hanno preferito il silenzio e alcuni commentatori (non tutti ovviamente) hanno personalizzato la critica politica mossa da Matteo per cercare nuovamente ragioni di vanità, di egocentrismo e addirittura di gelosia o di invidia nei confronti del Presidente Conte.
Eppure non sembra che il governo abbia sempre dato risposte convincenti e univoche a chi oggi si sente abbandonato, come gli studenti e tutto il comparto scuola, come i cantieri, come le attività commerciali e le aziende in crisi e in generale tutti i settori della società privata non garantiti da stipendio fisso.
Perché solo adesso e non prima?
Semplicemente perché erano comprensibili all’inizio le evidenti difficoltà di gestione di una pandemia mondiale, che ci ha portati ad accettare tutti i Dpcm, le conferenze stampa in notturna e la farraginosità dei provvedimenti economici, e perché ora ci si deve assumere la responsabilità della ricostruzione.
Il tentativo di gestire i soldi europei in completa autonomia con commissari direttamente nominati che scavalcassero i ministri ha rappresentato la goccia in un vaso già in bilico.
Chi non ha creduto in questo governo è proprio Giuseppe Conte e, incredibilmente, PD e Movimento hanno consapevolmente ceduto la loro dignità politica, con la giustificazione che in un momento di emergenza non si può discutere la decisione del capo. Ma non è così; non può essere così. La pandemia non si combatte con l’immobilismo né con la monocratica volontà di chi non ha di certo “verità rivelate”.
E, soprattutto, qualcuno – a parte Matteo – ha avuto l’onestà e la generosità di mettere in discussione metodo e merito? Qualcuno si è chiesto cosa accadrà se il Recovery fund dovesse essere utilizzato male? Qualcuno si è posto seriamente il problema di come risollevare la sanità (senza ogni volta andare a vedere quanto il governo Renzi vi abbia destinato in precedenza, quando c’era il vincolo di bilancio)? Qualcuno si è domandato se il piano vaccinale sia adeguato? Qualcuno si è chiesto se l’assistenzialismo basterà alla ripartenza e cosa accadrà quando a marzo non vi sarà più il blocco dei licenziamenti?
Qualcuno, insomma, può spiegare perché un governo che non funziona non possa cambiare in piena emergenza?
Tante domande che non possono scongiurarne un’ultima: qualcuno può chiarire quale sia la convenienza (recte: furbizia) politica di uscire dal governo se non quella di pretendere un cambio di passo da parte di chi tace nel merito le risposte alle problematiche sollevate? Davvero si vuole ritenere che siano solo ragioni di personale acredine?
Alla fine, sembra che il problema sia sempre Renzi e che la politica non sia al servizio della collettività: se non funziona qualcuno deve pur dirlo senza paura di perdere poltrone e potere.
Per una volta la politica deve assumersi le sue responsabilità, che non significa cercare al Senato chi ti consentirà di proseguire nell’errore di rinunciare al MES, di mantenere le scuole chiuse, di nominare tante task force per esautorare il governo. Essere responsabili significa, in questo frangente, uscire dalle logiche personali; azzerare le malevole chiacchiere da social (o da bar dello sport) per screditare una persona che non dovresti vedere come avversario, ma come interlocutore del dialogo politico; puntare all’analisi nel merito e alla sintesi nel metodo; rifuggire le etichette approssimative e superficiali; rinunciare a usare la pandemia come giustificazione per l’inazione o per il passivo rifiuto della sfida politica; comprendere che il gesto di lasciare le poltrone è l’ultimo strenuo tentativo di far capire che ci siamo solo se c’è un adeguato coinvolgimento.
Insomma, essere responsabili significa cogliere oggi l’opportunità di provare ad essere statisti.

Catello Vitiello

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