L'€conomista
Il nodo tra Pmi e concorrenza rallenta la crescita italiana. Occorre riformare il sistema
Il sistema produttivo italiano continua a fondarsi su una struttura fortemente polarizzata, dove la centralità delle micro e piccole imprese rappresenta al tempo stesso un punto di forza e un limite competitivo. Oltre il 75% delle imprese attive ha meno di dieci dipendenti, ma contribuisce a oltre l’85% del valore aggiunto nazionale e impiega quasi tre quarti della forza lavoro. Un tessuto imprenditoriale diffuso, radicato nei territori, ma frammentato e sottocapitalizzato, che fatica a reggere il confronto con le economie europee di scala più integrata.
La questione dimensionale rimane centrale nel dibattito sulla concorrenza. Circa il 70% delle microimprese italiane si muove in mercati prevalentemente locali. Questa limitata proiezione esterna frena la capacità di investimento, di innovazione e di penetrazione commerciale. Favorire processi di aggregazione, reti d’impresa e alleanze settoriali rappresenta quindi una condizione essenziale per rafforzare la produttività complessiva e sostenere la transizione tecnologica. Un sistema di incentivi fiscali strutturali per le reti di imprese, accompagnato da strumenti di misurazione dei risultati in termini di occupazione, innovazione e internazionalizzazione, potrebbe costituire un passaggio decisivo. Non si tratta di sostenere l’espansione indiscriminata delle dimensioni, ma di costruire massa critica attraverso cooperazione e specializzazione condivisa. La sottocapitalizzazione resta il principale vincolo alla crescita. L’elevata dipendenza dal credito bancario e la scarsità di capitale di rischio impediscono alle Pmi di affrontare cicli lunghi di investimento e innovazione.
In questa prospettiva, la possibilità di indirizzare il risparmio privato verso il capitale di rischio delle imprese — mediante garanzie statali e la detassazione degli utili reinvestiti — costituirebbe una riforma strategica. La concorrenza, in un contesto di imprese sottocapitalizzate, si riduce spesso a una guerra di prezzi. Al contrario, una fiscalità che premi la patrimonializzazione e l’autofinanziamento genererebbe un vantaggio competitivo duraturo, incentivando anche l’apertura a investitori istituzionali e a forme di partecipazione diffusa. La qualità e le competenze del personale restano i principali fattori distintivi della competitività italiana, ma la loro carenza rischia di diventare un freno strutturale. Oltre il 40% delle piccole e medie imprese segnala difficoltà nel reperire lavoratori con competenze tecniche adeguate. È necessario, quindi, un sistema formativo integrato tra imprese, scuole tecniche e università, accompagnato da incentivi fiscali per la formazione interna e per il trasferimento di competenze tra generazioni imprenditoriali.
Un approccio moderno alla sicurezza sul lavoro può trasformarsi da obbligo normativo a strumento competitivo. La proposta di premiare le imprese virtuose attraverso bonus fiscali e riduzioni contributive legate alla riduzione degli infortuni o al miglioramento dei sistemi di prevenzione risponde a una logica di corresponsabilità e di cultura aziendale avanzata. L’adozione di accordi di secondo livello che integrino obiettivi di sicurezza, produttività e benessere organizzativo favorirebbe la costruzione di una nuova forma di partecipazione economica, capace di generare valore condiviso.
La semplificazione amministrativa è un’altra condizione necessaria per garantire un contesto competitivo equo. La creazione di un portale unico nazionale per la sicurezza negli appalti, la certificazione digitale della formazione e un sistema pubblico di rating della sicurezza aziendale rappresenterebbero un passo avanti nella trasparenza e nell’efficienza del sistema. La competitività delle Pmi italiane non può essere affidata solo alla riduzione dei costi o alla flessibilità contrattuale. È necessario un cambio di paradigma che metta al centro il capitale umano, la solidità patrimoniale e la cooperazione tra imprese. Solo in questo modo la concorrenza potrà diventare un motore di crescita e non un fattore di selezione distruttiva.
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