“Il Pd deve farsi Movimento e accogliere le esperienze civiche per limitare l’astensionismo”, intervista a Roberto Morassut

“Il campo largo non c’è più. Il Pd deve scegliere tra Mélenchon e Macron”. Così questo giornale ha titolato l’articolo di Angela Azzaro. Roberto Morassut, Vice presidente del Gruppo Pd alla Camera dei deputati, lei chi sceglie?
Questa alternativa, al di là delle apparenze, non fa alla situazione italiana, caratterizzata in questo momento da una grande e ancora incerta mutazione del panorama politico. Manca ancora poco meno di un anno al voto elettorale, probabilmente le sorprese sullo scenario politico e parlamentare non sono finite, c’è ancora la possibilità che la legge elettorali cambi. Non c’è dubbio che la scissione interna al Movimento Cinque Stelle rende più complesso ancora l’obbiettivo di costruire una coalizione politica che raccolga intorno al Pd forze moderate di centro, forze di sinistra e il nucleo residuo, ma ancora valido sul piano parlamentare e dei sondaggi del Movimento Cinque Stelle. Ma questo resta il compito del Pd, in primo luogo sul piano della proposta politica e programmatica e conseguentemente sul piano delle alleanze sia nel caso in cui la legge elettorale resti questa sia nel caso in cui si arrivi ad una legge proporzionale, perché è molto probabile che il prossimo Parlamento, se eletto su base proporzionale e magari con uno sbarramento sufficientemente congruo, comporterà necessariamente l’esigenza di costruire dopo il voto alleanze “larghe”. E poi rispetto alla situazione francese ci sono differenze e similitudini che escludono nettamente per il Pd un’alternativa tra “moderati” e “sinistra radicale”.

Vale a dire?
La differenza è che in Francia non esiste una forza politica che è il primo partito nazionale che sta esattamente in mezzo a queste due aree di consenso repubblicano e comunque anti- sovranista e che possa svolgere un ruolo di collante e di sintesi. Altra differenza è che queste due aree sono in Francia abbastanza coese al loro interno mentre in Italia sono caratterizzate da una grande frammentazione, persino pulviscolare, almeno al momento. Quindi i rapporti sono rovesciati: qui c’è un soggetto unificante forte e due campi laterali fragili, in Francia è il contrario. Ma c’è una similitudine: anche in Francia nessuna delle due aree politiche anti-sovraniste e di lealtà costituzionale e repubblicana è autosufficiente e deve necessariamente trovare la via di un compromesso politico e programmatico, se non si vuole il caos. Perché se Macron non ha vinto, come si aspettava, neanche Mélenchon ha ottenuto quel risultato netto che immaginava A ggiungo che in Francia la destra sovranista, che pure ha raggiunto un risultato notevole, è comunque meno forte della destra sovranista italiana che tra Lega e Fratelli d’Italia è comunque in grado di attestarsi intorno al 40%. Ecco i motivi che escludono per il Pd di “scegliere” ma viceversa di insistere e approfondire ancora di più il profilo delle sue alleanze sul piano programmatico e politico. Non abbiamo scelta.

Scrive Azzaro: “Tornati al punto di partenza dello scacchiere, forse si può finalmente ragionare non di alleanze tattiche, ma di questioni politiche. E allora la domanda non è se il Pd sta con Di Maio o con Conte, ma se sceglie di essere Macron o Mélenchon. Se cioè preferisce andare a collocarsi al centro, diventando l’aggregatore delle diverse forze che in questo momento gravitano intorno a quell’area, supponendo che gli altri siano disposti a farglielo fare. Oppure si rimette a fare la sinistra, lasciandosi alle spalle draghismo e populismo…”.
Per sua natura il Partito Democratico non potrà mai essere né il federatore di un campo esclusivamente moderato, né l’alveo di ricomposizione di una sinistra che non guardi ad un rapporto con altre culture riformiste e non si ponga credibilmente e senza ambiguità il problema del governo e dell’Europa. Siamo nati per questo: unire riformismi, costruire una nuova dimensione ed una sintesi tra le grandi culture del Novecento ed a dispetto delle apparenze più immediate è esattamente questa la via per salvare e consolidare la nostra democrazia e la stessa Europa dalla spaventosa crisi sociale, ecologica che attraversiamo e che gonfia le vele dei populismi mutanti ma permanenti che attraversano il continente e che spinge verso la guerra, dal momento che io considero la guerra in Ucraina il prodotto della crudele visione geopolitica del nazionalismo russo di Putin sommato alla debolezza dell’Europa ed al suo ridotto peso specifico politico e militare nella Alleanza Atlantica. Il cosiddetto “centro” oggi è segnato da un grande affollamento di formazioni politiche e di personalità, per lo più tra loro in competizione, ma con un basso, troppo basso, consenso elettorale nel Paese. Io mi auguro che questo spazio possa trovare una semplificazione ed un equilibrio dentro una visione di lealtà costituzionale e repubblicana che non potrebbe che guardare verso sinistra e verso il Pd. Questa possibilità spetta molto alla responsabilità dei vari Calenda, Renzi, Di Maio; una responsabilità che va ben oltre il destino dei loro singoli gruppi o partiti. In qualche modo è anche nelle loro mani la chiave di uno sbocco costituzionale e repubblicano di questa crisi, non solo nelle mani del Pd. Come spero che un mondo più radicale di sinistra o se vogliamo di riformismo radicale o di civismo democratico – nel quale colloco il Movimento Cinque Stelle dopo questa scissione – si renda conto che il culto dell’autosufficienza e della testimonianza non fa fare mezzo passo avanti alle battaglie e alle domande sociali che si vorrebbero rappresentare sul piano della eguaglianza sociale, dei diritti civili, della transizione ecologica.

Cosa dovrebbe fare il Pd, allora, per affrontare questa nuova e più complessa fase? Non pensa che, comunque, la parola d’ordine del “campo largo” sia quanto meno da aggiornare?
Se l’espressione “campo largo” risultasse di ostacolo ad altri interlocutori si potrebbero trovare altre formulazioni ma non è quello il problema, le formule servono per comunicare contenuti e idee. Resta la sostanza: costruire un ampio schieramento plurale intorno ad alcuni caposaldi di riferimento. In primo luogo la collocazione internazionale del nostro Paese e conseguentemente la posizione nell’ambito del conflitto tra Russia ed Ucraina. La nostra posizione coincide con quella espressa in Parlamento dal Presidente Draghi e da Enrico Letta nella dichiarazione di voto finale a nome del Partito Democratico. La collocazione atlantica ed europeista in cui l’Italia si fa parte attiva per ogni utile iniziativa diplomatica – accanto al sostegno materiale a militare all’Ucraina aggredita – per giungere alla pace ed in prospettiva per rafforzare l’Unione europea, riformare le sue istituzioni e costruire rapidamente una difesa comune. In secondo luogo le politiche per il lavoro e la tutela delle fasce deboli della popolazione colpite dalla crisi e qui c’è il nodo del salario minimo che ci differenzia nettamente dalla destra che è contraria o in difficoltà soprattutto sulla proposta del ministro Orlando che lega il salario minimo ai contratti nazionali; un tema sul quale invece c’è lo spazio per una intesa con forze moderate e di centro. In terzo luogo la transizione ecologica. Deve essere chiaro che la attuale crisi energetica non deve rallentare la spinta verso le rinnovabili e verso il conseguimento dei target fissati in sede europea per la neutralità climatica entro la metà del secolo; esigenza drammatica confermata dalla siccità di queste settimane.

Ma il Pd si sta attrezzando per questo programma e soprattutto come intende organizzarsi per affrontare la sfida elettorale svolgendo il ruolo di collante in modo nuovo rispetto al “campo largo”.
Durante la segretaria di Enrico Letta si è svolto un lavoro istruttorio molto intenso e diffuso con le “Agorà” che sono state un cantiere aperto di dialogo e di proposte dai grandi temi a temi più specifici e questo lavoro confluirà nei “Sassoli Camp” che faremo tra settembre e ottobre, mi pare, e che daranno un quadro completo del nostro lavoro di elaborazione programmatica. Ma, come ho sempre affermato da diversi anni a questa parte, io credo che dovremmo fare un passo avanti coraggioso sul piano della nostra stessa morfologia organizzativa e conseguentemente estetica. Cioè dare alla nostra esperienza il senso dell’apertura di un nuovo ciclo che ci consenta di avvicinare e accogliere un mare di esperienza civiche che sono “democratiche” o di “sinistra civica” ma che non partecipano alla nostra vita democratica e alla crescita della nostra classe dirigente. Sono, queste, realtà che abbiamo potuto vedere quale contributo decisivo stanno dando nelle elezioni amministrative; cito fra tutti il caso di Damiano Tommasi a Verona ma non solo. Sarebbero un ponte importante anche verso quel grande campo di astensionismo che rimane il grande limite delle democrazie e che abbiamo visto quanto grande sia stato anche in Francia. Per farlo dobbiamo superare questa nostra forma “Partito” che si basa su correnti organizzate ma chiuse e farci anche noi “campo” o “movimento”, persino eliminando quella “P” che accompagna il nostro simbolo e definirci solo “Democratici”. Lo dico da dirigente di Partito, una parola che per me è carica di significati ideali ed emotivi, non solo politici.