La protesta in corso di magistrati onorari e giudici di pace, a motivo della precarietà della loro condizione, in uno alla rivendicazione di uno status meno gravemente dissimile da quello dei magistrati togati, pone sul tavolo almeno tre temi. Il primo attiene all’esercizio della giurisdizione da parte di coloro che fanno e non fanno parte, allo stesso tempo, della “macchina giudiziaria”.
Che lo Stato si avvalga massicciamente dell’apporto lavorativo di questi soggetti significa che ne ha bisogno e che li remuneri in modo inadeguato è uno dei suoi tanti segnali di debolezza. Quando la debolezza diviene iniquità, siamo di fronte a una questione fondamentale.
Ma la soluzione non può essere la parificazione al trattamento, giuridico e stipendiale, del giudice togato: perché ciò può farsi a condizione che l’accesso per tutti si fondi su una selezione per concorso pubblico. Il che, come tutti sappiamo, non avviene. E anche questo, oggi, è forse gravemente ingiusto, ma stavolta dal punto di vista degli utenti della giustizia. Mi direte: come se il concorso garantisse per sempre la qualità del lavoro! Concordo, non per sempre, ma fornisce di certo una base di partenza ragionevolmente soddisfacente nella stragrande maggioranza dei casi. Soluzioni mediane, improntate a trasparenza ed equità, sono quindi improcrastinabili.
Il secondo tema attiene ai privilegi della magistratura togata della quale chi scrive fa parte. Il privilegio è di per sé un concetto neutro. Infatti, quando ricordiamo i privilegi dell’ancien régime, aggiungiamo l’aggettivo “odiosi”, “insopportabili” e così via. Lo sono in quanto assistiti da una ragione sentita come arbitraria. I privilegi della magistratura italiana sembrerebbero consistere in stipendi eccessivi e in un regime di totale “irresponsabilità”. Mi sembra una mitologia del privilegio fuorviante. I soldi: gli stipendi dei magistrati sono largamente inferiori a quelli di moltissimi funzionari della Pubblica Amministrazione (penso ai “gettoni” di molti consiglieri di amministrazione di nomina politica). La funzione è difficile e merita una remunerazione congrua che ne rafforzi prestigio e autonomia. Questo non lo dico io, ma il pensiero politico occidentale e la prassi degli Stati di diritto. Quanto all’irresponsabilità: le regole sulla responsabilità dei magistrati sono necessariamente protettive. Come afferma un giudice inglese in una sentenza sul fi ne vita: «I am a responsibility taker».
In ogni atto giudiziario, firmato dal giudice, c’è un’enorme assunzione di responsabilità: così deve essere! E in quest’assunzione, il magistrato deve essere e sentirsi totalmente indipendente. Non è un caso che le regole sulla responsabilità civile dei magistrati, che sostanzialmente lasciano impuniti i loro errori a meno che non vi siano dolo o colpa grave, siano molto simili in tutti gli ordinamenti giuridici degli Stati di diritto. Altro profilo è invece quello della meritocrazia in magistratura (sul cui gigantesco fraintendimento si sono innestate le faide correntizie dell’ultimo quindicennio).
E altro profilo ancora – caro a Il Riformista, giustamente – è quello della deriva politica delle indagini penali, ovvero dell’inefficienza delle indagini penali e del costo che questo ha sulla vita dei cittadini: temi politici, che la magistratura al suo interno – ed è il mio auspicio – deve ancora imparare a discutere con totale franchezza e assunzione di responsabilità. E veniamo allora al terzo tema: qual è la percezione intorno ai magistrati italiani? Purtroppo, l’informazione dell’ultimo quarto di secolo si è polarizzata tra divinizzazione e demonizzazione. Tolte le croste di queste derive, entrambe dannose (ma con effetti diversificati), che cosa resta?
Credo che poche città italiane avrebbero da dire in argomento più di Napoli: l’esigenza di una franca, profonda analisi del rapporto tra politica e magistratura ha infatti in questa città uno dei suoi centri nevralgici. Nella mia esperienza, però, i napoletani non troppo insofferenti alle istituzioni pubbliche (tutte) mantengono ancora una certa fiducia nel valore più importante in assoluto: la terzietà del giudice. Su questa fiducia e questo valore bisogna, tutti, non retrocedere di un millimetro. Perché il vero privilegio odioso, la vera catastrofe è fondamentalmente una: il giudice non imparziale.
