Non tutti i Magistrati sono uguali, non nei diritti almeno. Nell’immaginario collettivo il Magistrato gode di una condizione lavorativa stabile, quasi invidiabile, cui è sconosciuto lo svilimento proprio di altre categorie, anche nel settore pubblico. Ma non è così per tutti. Il Covid-19 ha scoperchiato il vaso di Pandora, ha liberato tutte le aberrazioni cui i 5000 magistrati onorari italiani sono soggetti nel quotidiano esercizio delle proprie funzioni, da oltre 20 anni.

Costoro lavorano accanto alla Magistratura professionale, giudici e pubblici ministeri anch’essi, cui lo Stato ha devoluto oltre il 50% degli affari civili di primo grado di giudizio, oltre l’80 % nel settore penale, ma senza alcun corrispondente riconoscimento. Per lo Stato italiano costoro, impiegati senza soluzione di continuità ed in misura sempre maggiore, pena il collasso del Sistema, non sono lavoratori, non spetta loro alcun diritto. Le Associazioni componenti la Consulta della Magistratura Onoraria, unitamente alle altre rappresentative della categoria, hanno cercato a più riprese, ad oggi senza esito, un dialogo col Ministro Bonafede per ricondurlo a considerare le incivili condizioni di lavoro – e non di filantropico esercizio – in cui operano.

In una recente lettera al Ministro, le Associazioni hanno chiesto un incontro, in una fase drammatica, per ricordare come questi magistrati «non abbiano alcuna assistenza per la malattia alla quale sono esposti massivamente, presenziando in udienza per interminabili giornate, con un carico in permanente crescita anche per via dei ritardi dovuti alla prima fase pandemica. Assenti – per loro – collaboratori di segreteria che li coadiuvino nelle attività propedeutiche e successive, i Magistrati Onorari accedono quotidianamente agli uffici giudiziari, ove non ci sono spazi sufficienti per garantire efficacemente il distanziamento sociale, con conseguente esposizione al rischio elevatissima. E, tutto questo, senza alcuna tutela della malattia».

Eppure costoro, come ogni magistrato, sono sottoposti a valutazioni di professionalità, efficienza e di produttività, il cui severo accertamento è devoluto al Csm, ma si ritiene equo compensarli a cottimo, con un misero gettone di presenza pari a 98 euro lordi, dal 2003 mai indicizzato, senza alcun ulteriore riconoscimento economico, neanche in caso d’incolpevole assenza, sia pure perché malati di Covid-19 o in isolamento fiduciario. Lo Stato Italiano, monitorato speciale della Commissione Europea, come recentemente ribadito, per il quale è prossima l’ennesima procedura d’infrazione per violazione dei loro diritti, mantiene questi lavoratori in una “condizione ripugnante”, locuzione usata proprio dalla coalizione al Governo per definire l’identica condizione in cui sono tenuti, da datori di lavoro privati, i cosiddetti “riders”.

«Risulta ancor più ripugnante – hanno sottolineato i rappresentanti delle toghe onorarie al Ministro – laddove sia lo Stato a riservare un identico disumano trattamento a chi amministra Giustizia, uno dei settori portanti di qualsivoglia democrazia moderna, unitamente a Sanità e Istruzione». Non si può tacere, poi, la gravità delle parole espresse sul tema dalle senatrici Valente ed Evangelista, relatrici per la maggioranza dell’ennesimo disegno a finanza invariata – ça va sans dire – di riforma del settore: l’irricevibilità delle legittime richieste di questa categoria di lavoratori viene attribuita, dalle due esponenti parlamentari, a scelte operate dall’entourage ministeriale, ora come nel 2017, allora Guardasigilli Andrea Orlando, nello specifico dalla sua componente magistratuale (professionale).

Verrebbe da dire che il lupo perde il pelo ma non il vizio, se non fosse che quanto emerso è ancora più allarmante: non solo, cambiando il protagonista di Via Arenula, appare immutata l’investitura meramente formale di un ruolo delegato ad altri, ma tale abiura pare un virus ad espansione rapida che porta a piegarsi al diktat dei tecnocrati anche i titolari di mandato parlamentare, investiti direttamente per elezione e tenuti esclusivamente ad operare, nel rispetto della Costituzione, per l’efficienza e il buon andamento della Pubblica Amministrazione e dei cittadini che, soggetti attivi o passivi, ne fanno parte. Pur di non dispiacere all’impianto imposto dalla componente, decisamente minoritaria, di magistrati prestati alla politica, invece, in spregio anche ai reiterati inviti dell’Ue al ripristino dello stato di diritto, l’attuale Legislatore decide di mantenere questi lavoratori essenziali in una condizione che mina l’autonomia e indipendenza della funzione magistratuale stessa, persistendo, per il futuro come per il passato, in una dimensione da legislazione lavoristica di fine ‘800.

Nessuna tutela della malattia, della maternità, nessun riconoscimento previdenziale, imponendo il versamento di contributi interamente a carico del lavoratore, nessun adeguamento dei riconoscimenti retributivi alla quantità e qualità del servizio reso. È certamente singolare che, mentre la Magistratura al Ministero insista per una politica soppressiva, la Magistratura negli Uffici giudiziari sottolinei invece l’imprescindibile apporto della consorella onoraria, avanzando al Ministro, in un recente documento sottoscritto dal nuovo Comitato Direttivo dell’Anm, richiesta di un maggior impiego di questa componente formata ed essenziale dell’Ordinamento. Evidentemente è assai diverso l’obiettivo perseguito, non di carattere politico a difesa della casta, ma di efficienza del Sistema e buon andamento della res publica, che non può prescindere da una componente impiegata quotidianamente nelle medesime attività, tenuta ai medesimi doveri, ma privata dei più basilari diritti.

Per sostenere la bontà di un simile impianto, poi, fedele alle direttive imposte per sua stessa ammissione, il nostro Legislatore ha deciso di puntare, nell’imbarazzo generale, al coup de theatre: qualificare quali lavoratori autonomi i magistrati onorari italiani. Non è concepibile, né previsto in alcun Ordinamento dell’Ue, che un Legislatore nazionale ipotizzi di appaltare una quota considerevole di giurisdizione, nel settore sia civile che penale, a liberi professionisti del diritto, solo per giustificare a un distratto lettore che trattasi di escamotage meramente formale per violarne le prerogative giuslavoristiche.

Non basterà ad evitare né la procedura d’infrazione, né il profluvio di cause davanti al giudice del lavoro, né le responsabilità dello Stato per i costi conseguenti, incidenti sulle proprie casse e sui cittadini. Dopo aver sfruttato per oltre 20 anni lavoratori a costi irrisori, con un capitolo di bilancio loro riservato pari a un decimo delle risorse stanziate per gli omologhi magistrati professionali, lo Stato, asseritamente garante dell’efficienza, del buon andamento e dell’imparzialità del Sistema Giustizia, ora pensa di adempiere a questo dovere non riconoscendo i legittimi diritti loro spettanti, che assicurino la doverosa indipendenza nell’espletamento delle funzioni ed il ritorno alla legalità, non rispettando il proprio mandato parlamentare e, di riflesso, la Carta Costituzionale, bensì creando una figura di business owner della Giustizia, con ricadute ancor più devastanti sull’azzoppato Sistema e le sue casse. Ma con buona pace dei collaboratori in toga del Ministro di turno.

 

La Consulta della Magistratura Onoraria

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