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In Italia non c’è giusto processo: tempi irragionevoli e nessuna garanzia di imparzialità. Separazione delle carriere, un filo lungo 25 anni
Quando, nel 1999, il Parlamento approvò la riforma dell’articolo 111 della Costituzione, l’Italia fece un passo decisivo verso una concezione moderna del processo: il giusto processo. La revisione costituzionale introdusse princìpi che oggi consideriamo quasi scontati, ma che all’epoca rappresentavano una svolta culturale e ordinamentale: la terzietà e imparzialità del giudice, il contraddittorio tra le parti, la parità delle armi tra accusa e difesa, la ragionevole durata del processo. Dietro quella riforma ci fu un lungo dibattito, sostenuto con forza dall’Unione delle Camere Penali. L’allora presidente, l’avvocato Giuseppe Frigo, si fece interprete con determinazione e passione delle esigenze di un processo realmente equilibrato: fu una delle voci più autorevoli e insistenti nel sostenere che, senza parità tra accusa e difesa, non può esistere un giudice davvero terzo. La sua azione, instancabile e rigorosa, contribuì in modo significativo alla maturazione del consenso parlamentare che portò all’approvazione della riforma.
Oggi, a distanza di oltre venticinque anni, quel percorso riemerge nel dibattito sulla nuova riforma costituzionale promossa dal Governo e attualmente all’esame del Paese: la separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante. Secondo i sostenitori della riforma, l’assetto vigente del Consiglio Superiore della Magistratura—dove accusatori e giudicanti condividono percorsi, carriera e organi di governo—non garantisce pienamente quei princìpi di terzietà e parità sanciti proprio nel 1999. Per tale ragione, la separazione delle carriere viene presentata come la naturale prosecuzione e attuazione di quella scelta costituzionale: rendere effettiva la distinzione di ruoli per assicurare un giudice realmente indipendente dalle parti e una più limpida simmetria tra accusa e difesa. Il dibattito è acceso, ma un punto appare indiscutibile: il confronto attuale non nasce dal nulla. È l’eredità di un percorso iniziato alla fine degli anni Novanta, quando la Costituzione venne modificata per affermare, con chiarezza, che il processo non può funzionare senza un giudice terzo e senza condizioni paritarie per tutte le parti. Allora fu il tempo del “giusto processo”. Oggi è il tempo di completarlo.
Prendiamo allora in prestito proprio le parole del Presidente Frigo, pronunciate nel corso della conferenza stampa dell’Unione delle Camere Penali l’8 luglio 1999: «Giusto processo è innanzitutto imparzialità e terzietà del giudice che nel processo penale vuol dire assicurarsi che il giudice sia distante dal Pubblico ministero, almeno quanto è distante dalle parti private. Vuol dire il contraddittorio per la prova come regola, che significa che si giudica delle sorti di una persona soltanto attraverso le prove che si raccolgono davanti al giudice in pubblica udienza, nel contraddittorio tra le parti… perché le parti debbano essere egualmente partecipi alla formazione della prova; vuol dire giudizi in tempi ragionevoli; giusto processo vuol dire informare tempestivamente una persona accusata dei motivi e della natura dell’accusa, vuol dire agevolare la sua difesa, vuol dire parità delle armi tra accusa e difesa; vuol dire effettività della difesa. Noi non abbiamo in Italia un processo giusto, perché non abbiamo un processo in tempi ragionevoli, perché non abbiamo un processo che assicuri realmente, nei fatti, l’imparzialità e la terzietà del giudice. Ci siamo preoccupati sempre della indipendenza che è un valore diverso da quello della imparzialità del giudice. Non abbiamo un bilanciamento minimamente accettabile tra accusa e difesa».
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