L'editoriale
In Italia non si governa, si vota. Comuni, Regioni, Europa: così il ceto politico difende la poltrona come un bene ereditario
In Italia non si governa: si vota. Comune, Regione, Parlamento, Europa. Ogni settimana spunta un’urna nuova. I media hanno trasformato la politica in un talk show infinito: non contano progetti o idee, ma candidati, mandati e cavilli per prolungarli. I programmi sembrano volantini di offerte: un bonus qui, una pensione anticipata là, un salario non guadagnato in fondo al carrello. Alla cassa, come sempre, paga Pantalone.
Le candidature sono merce di scambio
Le regionali mostrano bene il copione: regole scritte e subito disattese, alleanze decise a Roma e ignorate nelle Regioni. Le candidature diventano merce di scambio, chi decide non rende conto a nessuno, ciascuno suona per conto proprio. Un tempo i partiti erano palestre di discussione e formazione. Oggi sono contenitori personali, dove i leader vengono ascoltati solo quando compilano le liste e assegnano i ruoli ai loro beneficiati. Niente cursus honorum, niente selezione dal basso: conta la fedeltà, non il merito, né la rappresentatività.
La difesa della poltrona
Così il ceto politico difende la poltrona come un bene ereditario. I cittadini osservano da lontano, i giovani si allontanano, e la politica si riduce a passerella. Intanto si evocano ancora destra, sinistra e centro, ma sono etichette sbiadite del ’900. Sui grandi temi – economia, welfare, diritti, istituzioni – le differenze si confondono. Restano slogan urlati e consumati. Eppure la democrazia non vive di bonus né di promesse irrealizzabili: vive di regole rispettate, partecipazione reale, trasparenza. Bobbio ricordava che la democrazia è “regola del gioco”. Ma da noi il gioco sembra truccato, e sempre più spettatori lasciano lo stadio.
Non si parla dei problemi di chi lavora
Un Paese senza una democrazia ordinata scivola nella confusione: in superficie caos, nei sotterranei decisioni prese da pochi. Lì non si parla dei problemi di chi lavora, ma solo di equilibri di potere. E chi non lo capisce ignora quanto sia vitale far funzionare la politica. Non serve tornare nostalgicamente alla Prima Repubblica, ma riconoscerne alcuni meriti: partiti strutturati, leader scelti dagli iscritti, identità politiche chiare. Chi perdeva la fiducia non veniva riciclato, ma mandato a casa dagli elettori. Gli eletti avevano competenza e un percorso alle spalle; facevano politica con responsabilità, non come ascari al servizio del capo.
È tempo di inaugurare la Terza Repubblica
Se vogliamo uscire dalla stagnazione, occorre ricostruire criteri e spazi di partecipazione, recuperando il meglio del passato e coniugandolo con la modernità. La Prima Repubblica, pur con difetti, aveva radici solide; la Seconda è stata un fraintendimento che ha allontanato i cittadini. Forse è tempo di inaugurare davvero la Terza, fondata su trasparenza e responsabilità. E magari chiedersi se i partiti personali e chiusi siano compatibili con l’articolo 49 della Costituzione: quell’articolo che andrebbe finalmente utilizzato per aprire luoghi di partecipazione, soprattutto ai giovani, e selezionare con ordine una classe dirigente. Questo tema è il cuore del funzionamento del sistema politico e del suo rapporto con i cittadini. Ignorarlo in tempi come questi corrisponde a consegnare le nostre comunità ancor più ai mostri dell’avventurismo populista.
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