L’Europa, la Nato e l’Afghanistan. Fuga da una guerra che non doveva essere o fuga, ingloriosa, dalle proprie responsabilità? Il Riformista ne discute con una delle personalità che più conosce la diplomazia europea e lo scenario internazionale: l’Ambasciatore Antonio Armellini. Nella sua lunga carriera diplomatica, è stato collaboratore di Aldo Moro alla Farnesina e a Palazzo Chigi, portavoce di Altiero Spinelli alla Commissione di Bruxelles, ambasciatore in Algeria, in India, all’Ocse a Parigi, roving ambassador alla Csce a Vienna e Helsinki, capo della missione italiana in Iraq nel 2003-04.
Ora che l’ultimo marine ha lasciato Kabul, è tempo di un primo bilancio sulla ventennale “avventura” afghana. Qual è il suo?
Il bilancio è quello di un’operazione che era stata portata avanti con delle premesse che col passare del tempo sembrano essere mutate, se non altro nella mente americana e quella del presidente Biden. Un’operazione che forse si è conclusa anche tardivamente, quel che è certo è che si è conclusa male.
Perché?
Non si tratta di evocare un presunto “tradimento” dell’Occidente. Il problema è che si è entrati in una situazione di cui si era sottovalutata la complessità. Per sconfiggere al-Qaeda, si è detto e ripetuto. In realtà, era stato spiegato a tutti gli alleati, a noi in particolare, che sconfiggere al-Qaeda era la prima parte di una partita quanto meno a due facciate. Sconfiggere il terrorismo comportava comportava anche consolidare le basi del Paese in cui si operava e rafforzare la democrazia. Vede, la cosa che più mi ha colpito in questa vicenda ultima, è stata l’affermazione del presidente Biden, secondo cui in realtà non era questo l’obiettivo, ma l’obiettivo era quello di smascherare e colpire duramente l’organizzazione terroristica di Osama bin Laden. Beh, se così fosse stato, allora avrebbero ragione quelli che dicevano: perché non ce ne siamo andati dopo quattro anni. Al di là di questo, che non è fondamentale, c’è da chiedersi perché a noi alleati è stato presentato uno scenario diverso nel quale abbiamo creduto o, se vuole, si è finto di credere per molto tempo. Perché nessuno in Italia pensava, credo, che le missioni di pace che finanziavamo regolarmente fossero soltanto per sconfiggere al-Qaeda. Era per creare un Afghanistan libero, democratico nel quale noi portavamo scuole e caramelle. In ultima analisi, si è trattato di una vicenda che è cominciata per ragioni del tutto giustificate ma che è stata portata avanti male e conclusa peggio. Alcuni giorni fa ho letto un articolo del New York Times che dice un po’ l’ovvio e lo dice come fosse una scoperta che tutti noi stavamo facendo…
Vale a dire?
Che l’Afghanistan è una realtà complessa in cui c’è un Afghanistan urbano che piange la partenza degli americani e un Afghanistan rurale che dice fra due demoni, almeno quello dei Talebani non ci porta più la guerra. È un dato, questo, che credo sia stato molto sottovalutato. Ma a chi guardava l’Afghanistan era chiaro fin dall’inizio.
L’Afghanistan storicamente è stato descritto, a ragione, come “il cimitero degli imperi”. È anche il “cimitero” della Nato?
Il discorso sulla Nato, a mio avviso, va al di là di questa vicenda. Lo dico con una battuta: è dal 1989 che la Nato deve capire cosa fare da grande. C’è stato un momento in cui, un po’ tutti, abbiamo creduto alla fine della Storia. La Nato era il “gendarme bonario” di questa fine. Tutto questo è poi durato molto poco, in realtà. Si sono ricreate una serie di contraddizioni che non sono ancora conflitti, rispetto alla quale la Nato sente come una nostalgia del passato e non riesce ad adattarsi al presente. La Nato come “gendarme” dell’ordine mondiale andava bene allora, ammesso che andasse bene, prima del crollo del muro di Berlino e del disfacimento dell’Urss e dell’impero sovietico, cioè prima della “fine della Storia”. Adesso, non è chiaro che cosa serve. Però si è detto, in Afghanistan e in tutti gli altri interventi umanitari, che la Nato era lo strumento attraverso il quale promuovevamo stabilità e soprattutto democrazia nel mondo. E allora torno al punto di prima, agli obiettivi cambiati nel corso dei vent’anni. La Nato ci è andata correttamente in base all’articolo V del suo trattato costitutivo, cioè per rispondere ad un’aggressione al territorio americano. E questo è giustissimo. Abbiamo fatto fuori al-Qaeda, l’articolo V è stato rispettato. La Nato deve capire sempre di più cosa deve fare da grande. Anche perché adesso ci troviamo dinanzi a un’America che attraversa uno dei suoi periodici cicli di isolazionismo. C’è dunque da ridefinire il parametro di questa alleanza e quale sia il ruolo dei suoi partner europei. Noi continuiamo a ritenere la Nato fondamentale per la sicurezza in Europa. Allora lo era in un contesto antagonista. Se dovesse ritornare ad esserlo, come ogni tanto qualcuno teme o vorrebbe, il problema diventa molto serio. Intanto, non si capisce noi perché dovremmo spingerlo e in secondo luogo non si capisce quale garanzia ci darebbero gli americani.
Molto si discute su trattare sì -trattare no con i Talebani. Ora gli Stati Uniti e la Nato sembrano scoprire che il vero pericolo è l’Isis. Come la mettiamo: si può applicare con i Talebani il vecchio adagio per cui “il nemico del mio nemico è mio amico”?
Il “nemico del mio nemico…” è un discorso di realpolitik kissingeriano, che forse va bene per Kissinger ma non so quanto bene vada per il presente e il futuro. Personalmente lo ritengo un ragionamento che fa senso e mi chiedo quanto la Nato sia in grado di farlo. La tentazione semplificatoria occidentale ci frega sempre. Perché l’Afghanistan è una realtà complessa. L’Isis è il nemico ma la cosiddetta Rete Haqqani – che conta sul sostegno dei potenti servizi pakistani – funge da raccordo tra i Talebani e al-Qaeda, che certo non si è trasformata in una formazione pacifista, e al tempo stesso Haqqani fa parte della nuova coalizione che si prepara a governare l’Afghanistan, con un ruolo importante, come testimonia la nomina a ministro dell’Interno nel governo appena formato del capo della Rete, Sirajuddin Haqqani, attualmente ricercato dall’Fbi per terrorismo, con una taglia di 5 milioni di dollari. Si tratta di avere un approccio forse un po’ diverso, un po’ meno ideologico, un po’ meno schematico, e guardare alla realtà per quel che è. Certo che con i Talebani bisognerà fare i conti, perché esistono. Ma da questo a considerare che siano una cosa totalmente diversa dal resto della galassia jihadista. E qui torniamo al discorso dell’Afghanistan urbano e di quello rurale. Ma questi Talebani che sono stati in giro per il mondo, che sono andati a Doha dove soggiornavano in alberghi a cinque stelle, hanno capito cos’è non solo la democrazia ma l’Occidente con le sue tentazioni, saranno poi in grado di imporre un modello univoco a tutto il Paese? Davvero saranno in grado di far cessare, soprattutto nelle regioni più remote, l’azione di formazioni di guerriglia, visto anche che i pachistani sembrerebbero intenzionati a continuare a foraggiarle? Discutere bisogna discutere ma considerare che “il nemico del mio nemico, sia un amico”, è decisamente andare avanti un po’ troppo. Mi lasci aggiungere un aneddoto curioso che riguarda il ruolo dell’Italia.
Di cosa si tratta, Ambasciatore Armellini?
Una cosa che non racconta più nessuno è che noi abbiamo avuto un peso e un ruolo in Afghanistan. Il primo re dell’Afghanistan, Amanullah, fu detronizzato negli anni Venti e ospitato da Mussolini in una villa all’inizio dell’Appia antica. Il re spodestato era di fatto sotto il nostro controllo e attraverso il quale esercitammo un’azione di politica estera. La stessa cosa successe con lo zio. Quando ci fu l’ultimo colpo di Stato anti monarchico, nel luglio 1973, re Zahir venne in esilio a Roma e ci rimase per moltissimo tempo. Tant’è che molti degli accordi sull’Afghanistan degli anni Settanta-Ottanta, passarono attraverso Roma. Ed è curioso che non se ne sia mai parlato e che in realtà non si sia mai conservata alcuna leva rispetto all’Afghanistan, forse perché un vecchio vizio della nostra politica estera è quello di essere molto eurocentrica e di guardare il resto del mondo da lontano.
In discontinuità con “America first” di Trump, Biden aveva coniato lo slogan “America is back”, in una chiave multilaterale. Alla luce dell’Afghanistan, come declinare questo slogan?
C’è stata anche la controbattuta: “America is back home”, che forse è più di una battuta. Biden aveva in mente di ripensare una politica estera se non opposta certamente molto diversa da quella del suo predecessore alla Casa Bianca. Detto questo, Ii suo concetto di multilateralismo è molto americano-centrico e forse non poteva essere altrimenti. Per gli Usa, tornare sulla scena internazionale comporta anche una qualche revisione delle sue priorità geopolitiche: l’ossessione cinese testimonia di una politica americana che si sposta sempre più nella direzione dell’Indo-Pacifico; una politica in cui l’Europa è sì importante ma in qualche modo accessoria. Ed è ciò che, a ben vedere, è avvenuto in Afghanistan: l’Europa è stata messa dinanzi al fatto di essere, per l’appunto, importante ma accessoria. Resta il fatto che noi non possiamo non definirci filo-americani. La polemica scatenatasi su questo la trovo priva di senso: alla fin della fiera, la nostra sicurezza sta lì, i nostri principi stanno lì. Di certo, però, il multilateralismo imperfetto, “slanted”, di Biden dovrebbe obbligarci come europei a pensare seriamente come all’interno di un’alleanza che cambia non di pelle ma di priorità, dobbiamo orientare la nostra sicurezza.
