La guerra perduta
Democrazia da esportazione in Afghanistan, un flop epocale: un trilione di dollari spesi male
La scienza politica e la scienza naturale sono discipline diverse ma hanno una caratteristica comune, la logica, che dovrebbe governarle entrambe. Per questa affinità, stavolta vorrei cimentarmi in alcune riflessioni riguardanti l’ingloriosa e dolorosissima esperienza dei venti anni trascorsi dall’inizio della missione “di pace e di stabilizzazione” in Afghanistan. Qualunque sia il giudizio personale sulla riconquista dell’Afghanistan da parte dei Talebani, è un fatto oggettivo che si tratti del più grande fallimento della politica internazionale del 21° secolo.
Gli Stati Uniti, dopo un impegno ventennale e uno sforzo economico superiore a quello per la Missione Apollo, non hanno trovato di meglio che affidare la difesa del paese a un esercito che sapevano sarebbe presto crollato. Il presidente Biden, incalzato dai giornalisti, ha infatti ammesso che sperava che le forze di sicurezza afghane avrebbero resistito più a lungo alla riconquista talebana, dando modo di ultimare le operazioni di evacuazione in sicurezza e senza essere assediati nell’aeroporto di Kabul. Ma la frammentazione storica dell’Afghanistan, parcellizzato in etnie che riconoscono l’autorità del capoclan locale molto più di quella di uno stato centrale, difficilmente avrebbe permesso di contenere l’assalto di bande di fanatici pronti anche all’estremo sacrificio. Questo è il primo elemento da valutare: quando si tratta di un’incursione da parte di un drone o del bombardamento con missili balistici, tenacia e determinazione contano poco.
Quando però si tratta di dare l’assalto alle postazioni nemiche, di prendere e tenere il controllo del territorio, di slanciarsi in azioni audaci e potenzialmente fatali, l’indottrinamento e fede sono le armi più potenti. In questi casi di solito prevale non il più equipaggiato, ma il più tenace. Gli Stati Uniti la lezione l’avevano già appresa in Vietnam. Nonostante l’impressionante dispiego di mezzi e di armamenti, alla fine avevano dovuto cedere a un esercito irregolare di contadini, molto più che all’aiuto dato ai Vietnamiti dai paesi comunisti. Ho Chi Min diceva di potersi permettere la morte di un milione di individui senza che il morale della nazione ne risentisse. Contro l’irriducibile la guerra è sempre stata difficilissima. Alla cacciata dell’ultimo dei re Etruschi di Roma, Tarquinio il Superbo, il re di un’altra città-stato Etrusca si mosse con un potente esercito in suo soccorso. Era Porsenna, lucumone di Chiusi, che cinse di assedio Roma, minacciando di raderla al suolo. Un giovane aristocratico, Gaio Muzio Cordo, si offrì per una missione suicida. Uscire nottetempo dalle mura della città, eludere la sorveglianza degli assedianti, introdursi nell’accampamento nemico, penetrare nella tenda di Porsenna e ucciderlo.
Il resto lo sappiamo, ma forse non ricordiamo un particolare. Gaio per errore pugnala il segretario di Porsenna, le cui grida richiamano la guardia del corpo del re. Porsenna comanda che sia portato al suo cospetto per interrogarlo e poi farlo giustiziare. Gaio chiede di essere lasciato perché ormai inoffensivo e quindi fa giustizia da solo a modo suo: infila la mano destra in un braciere fi no a consumarla e senza emettere un gemito, diventando ipso facto Muzio Scevola -il mancino-. Quindi, sventolando il moncherino sotto il viso del re gli dice (cito a memoria): “Guarda, o re, come io stesso ho punito la mano che ha fallito il colpo. Ora sappi che altri trecento Romani che, come me, non temono neanche di ardere vivi hanno giurato di ucciderti”. Manco a dirlo, Porsenna si affrettò a stipulare il trattato di pace con Roma. I Talebani non erano scomparsi, si erano ritirati, confusi tra la popolazione civile, o rifugiati in Pakistan. Hanno la pertinacia degli esaltati. Non ci potevano essere dubbi ragionevoli, con o senza gli accordi di Doha, che non appena fosse cessata la forza che li comprimeva, avrebbero dilagato. Dunque, cosa si sarebbe potuto fare? Alla fine del protettorato Britannico in India nel 1947, la situazione rischiò di degenerare in guerra civile.
A mali estremi si ricorse a estremi rimedi. Nonostante la decisa opposizione del Mahatma, si stabilì che l’India sarebbe stata divisa: gli induisti, più numerosi al centro e al sud, i musulmani al nord, nel nuovo stato chiamato Pakistan. Fu un’impresa titanica. Scontri, ribellioni, contrasto da parte di molti gruppi etnici, difficoltà logistiche immense, comunità di milioni di individui strappate dalle proprie radici e costrette a emigrare. E negli anni seguenti? Scontri alla frontiera, rivendicazioni dei territori di confine come il Kashmir, corsa agli armamenti nucleari, secessione della parte orientale del Pakistan con la nascita del Bangladesh e mille altre grandi contese e piccole scaramucce. Si divise una popolazione di molte centinaia di milioni di individui che erano stati più o meno mescolati per secoli, se non culturalmente, almeno geograficamente.
Quindi una follia? No, una soluzione draconiana, ma difficilmente evitabile se non si voleva correre il rischio di assistere ad una mattanza molto peggiore di quella che si sarebbe verificata nel Ruanda e nei Balcani. Perché non in Afghanistan? Diciamo pure che nei primi anni ci si potesse illudere di “normalizzare il paese” e di dotarlo di strutture e istituzioni abbastanza salde da reggere all’urto dei Talebani quando gli occidentali sarebbero ripartiti. Ma nell’ultimo decennio è apparso sempre più chiaro che il ritiro sarebbe coinciso col collasso delle istituzioni, rette a ogni livello da funzionari corrotti e da un presidente che ha fatto fagotto e se l’è svignata appena ha sentito i primi spari. Storicamente il Nord del paese è stato sotto il controllo dell’Alleanza antitalebana.
Si poteva contrattare con loro l’instaurazione di un protettorato dell’Onu, o di un nuovo paese sovrano. O magari ritagliare una zona anche piccola e facilmente difendibile, in cui accogliere e proteggere i profughi e i perseguitati, le forze democratiche e liberali. Eh sì, perché si continua a ripetere che non si può esportare la democrazia o i valori occidentali. Tuttavia, imporre arbitrariamente un regime teocratico e la Sharia, opprimere le donne, i dissidenti, gli omosessuali, gli agnostici, è un atto che confligge -prima ancora che con i valori occidentali- con il Diritto Naturale. Il diritto di ogni vivente a non essere perseguitato e minacciato, quel diritto che non rispecchia una particolare civiltà ma che distingue l’umanità dalla matta bestialità (Inf. XI, 82). Con il trilione (mille miliardi) di dollari spesi in Afghanistan si sarebbe potuta attrezzare e difendere una porzione di territorio, per renderla accogliente e appetibile per quanti vi si fossero voluti rifugiare. E adesso un po’ di dubbi legittimi su questa soluzione, a cui vorrei provare a rispondere preventivamente.
1) Se ci fosse solo poco territorio disponibile, perché nessuna etnia sarebbe stata disposta a cederne? I piccoli stati più densamente popolati sono nell’ordine: Principato di Monaco, Singapore, Hong Kong, Svizzera. E certo lì non si vive peggio che nell’Afghanistan dei Talebani.
2) Gli Afghani sono abituati al loro stile di vita, non avrebbero accettato alternative. Chi avesse voluto adeguarsi al regime talebano sarebbe stato libero di farlo e di restare. Ma c’è una generazione di giovani che hanno studiato, conosciuto la libertà di essere ciò che desideravano e non si riconosce nel burka e nelle leggi tribali. La popolazione afghana ha un’età media molto bassa, 27 anni, per cui i giovani sono moltissimi. E oltre a loro c’è quel pezzo di società civile che ha permesso che studiassero. Un ragazzo non va a scuola, se non c’è la scuola, gli insegnanti o se i genitori non acconsentono che vada.
3) Se l’Onu avesse votato una tale risoluzione, Cina o Russia avrebbero posto il veto. Non è affatto così scontato. La Russia (o piuttosto l’Unione Sovietica) ha sperimentato quanto sia complicato avere a che fare con l’Afghanistan e la Cina ha il problema interno degli Uiguri musulmani. E poi si sarebbero potuti usare i canali diplomatici, proporre un contraccambio per farli desistere. E, comunque, si sarebbe obbligato anche gli stati renitenti a discutere il problema e proporre una soluzione.
4) Gli Afghani non si sarebbero mai trasferiti spontaneamente in una diversa regione del paese. Colonne di disperati si stanno dirigendo sulle montagne al confine col Pakistan, per cercare asilo in Occidente, senza neanche sapere l’accoglienza che sarà loro riservata. Non sarebbero andati più volentieri in un’altra regione del loro paese, soprattutto se con garanzie di sicurezza e certezza del futuro?
5) Un protettorato o un paese indipendente non avrebbe potuto resistere a lungo all’assalto talebano. I talebani non dispongono di arsenali nucleari. Le armi più sofisticate che hanno sono quelle abbandonate dagli americani. Israele ha resistito agli assalti dei grandi paesi arabi coalizzati. Senza considerare che una democrazia nel cuore degli stati teocratici, nel lungo periodo avrebbe potuto indurre un cambiamento anche in chi alla democrazia non ha mai pensato. Naturalmente ci possono essere altre perplessità e altre variabili non tenute nella giusta considerazione, ma secondo me bisognava provarci ad ogni costo. Qualcuno dice: “Forse non dovremmo agitarci tanto, perché in fondo poteva andare peggio”. No. In queste condizioni, non poteva andare peggio di così…
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