Rame, oro, petrolio, gas naturale, uranio, bauxite, carbone, terre rare, litio, cromo, piombo, zinco, pietre preziose, talco, zolfo, travertino, gesso e marmo. Il menu di risorse naturali di cui è dotato l’Afghanistan è vasto e vario. E rende economicamente appetibile un paese di solito ritenuto tra i più poveri e arretrati del mondo. Un rapporto del Congressional Research Service degli Stati Uniti, pubblicato a giugno, stima che il 90% degli afghani vive al di sotto del livello di povertà con soli 2 dollari al giorno.

La domanda è se, tornati al potere dopo 20 anni, i talebani saranno capaci di sfruttare un patrimonio di minerali che per gli analisti potrebbe valere fino a tre trilioni di dollari. Un patrimonio che, nel momento in cui la ripresa economica globale dopo lo shock del coronavirus fa impennare i prezzi per tutto, dal rame al litio, acquista ancora maggiore valore. Il paese dei talebani possiede per esempio uno dei più grandi giacimenti di litio al mondo: un componente essenziale ma scarso nelle batterie ricaricabili – fondamentale dunque per garantire la durata delle batterie dei nostri smartphone – e in altre tecnologie vitali per affrontare la crisi climatica. È questa la ragione per cui l’Afghanistan è stato considerato “l’Arabia Saudita del litio”.

Come ricorda Rod Schoonover, scienziato ed esperto di sicurezza che ha fondato l’Ecological Futures Group, «l’Afghanistan è certamente una delle regioni più ricche di metalli preziosi tradizionali, ma anche di metalli necessari per l’economia emergente del 21° secolo». La grave instabilità politica del paese, la mancanza di sicurezza, la carenza di infrastrutture e le gravi siccità hanno impedito finora l’estrazione dei minerali più preziosi. Nonostante tutti questi ostacoli, le ricchezze del sottosuolo afghano attirano parecchio gli altri paesi asiatici, soprattutto Cina, Pakistan e India, che vorrebbero approfittare del vuoto lasciato dagli americani. La partita economica è enorme, i conseguenti profitti geopolitici altrettanto. La domanda di metalli come il litio e il cobalto, nonché di elementi delle terre rare come il neodimio, è in costante aumento perché entrano nei componenti delle auto elettriche e delle altre tecnologie pulite che riducono le emissioni di carbonio. Un mercato destinato a crescere: secondo l’Iea, l’International Energy Agency, senza le adeguate forniture globali di litio, rame, nichel, cobalto ed elementi delle terre rare, il mondo fallirà nel suo tentativo di sfidare la crisi climatica. Sempre secondo l’Iea, l’auto elettrica media richiede sei volte più minerali di un’auto convenzionale.

Litio, nichel e cobalto sono fondamentali per le batterie. Le reti elettriche richiedono anche enormi quantità di rame e alluminio, mentre gli elementi delle terre rare vengono utilizzati nei magneti necessari per far funzionare le turbine eoliche. Tre paesi oggi controllano attualmente il 75% della produzione globale di litio, cobalto e terre rare: Cina, Repubblica Democratica del Congo e Australia. L’Afghanistan, secondo le stime del governo degli Stati Uniti, può contare su depositi di litio capaci di competere con quelli della Bolivia, il paese che ha finora le più grandi riserve conosciute del mondo. Come ha spiegato anni fa sulla rivista Science Said Mirzad, advisor della US Geological Survey, “se l’Afghanistan avrà qualche anno di calma, consentendo lo sviluppo delle sue risorse minerarie, potrebbe diventare uno dei paesi più ricchi dell’area entro un decennio”. Ma la calma indispensabile per far ripartire l’economia e sfruttare le miniere è ben lontana. La maggior parte della ricchezza mineraria dell’Afghanistan è rimasta finora nel sottosuolo e rischia di rimanervi a lungo. È tutta da verificare, infatti, la capacità dei jihadisti di mettere in piedi un governo stabile. Così come sono molto alti i rischi di una guerra civile con il coinvolgimento delle potenze regionali confinanti.

Infine, i talebani non sono stati ufficialmente designati come organizzazione terroristica straniera dagli Stati Uniti. In queste condizioni, è difficile attrarre investitori stranieri. «La governance funzionale del nascente settore minerario è probabilmente lontana molti anni», spiega alla Cnn Mosin Khan, membro del Consiglio Atlantico ed ex direttore per il Medio Oriente e l’Asia centrale presso il Fondo monetario internazionale. Oggi i minerali generano solo un miliardo di dollari all’anno in Afghanistan. Il 40% di questo miliardo è finito nei rivoli della corruzione, dai signori della guerra ai talebani. Khan avverte che gli investimenti esteri erano già difficili da trovare prima che i talebani spodestassero il governo civile afghano sostenuto dall’Occidente. Attrarre capitali privati sarà ancora più difficile ora, che i rischi di investimento sono ancora più alti. «Chi ha intenzione di investire in Afghanistan quando non erano disposti a investire prima?» Chiede Khan. «Gli investitori privati non correranno il rischio».

Vista la situazione così caotica, numerosi osservatori attendono di capire come si muoverà la Cina, che oggi è un leader mondiale nell’estrazione di terre rare. Senza essere stato direttamente coinvolto nella lunga guerra, il Dragone è riuscito a proporsi come valida alternativa diplomatica ed economica, ricavandosi un ruolo di sponsor della stabilità in Afghanistan: un ruolo che potrebbe aumentare il proprio peso quando i talebani avranno consolidato il loro potere. Pechino ha concentrato sapientemente i propri sforzi sul settore economico, ottenendo – primo investitore non afghano e in competizione con l’India – i diritti di sfruttamento dei più grandi giacimenti minerari ed energetici dell’Afghanistan. Sotto l’ex Ministero delle Miniere, un contratto da 2,9 miliardi di dollari per una parte del deposito di rame di Aynak è stato concesso a due società cinesi di proprietà statale. Il contratto di 30 anni firmato nel 2007 prevedeva un alto tasso di royalty per gli standard globali e richiedeva che la fusione e la lavorazione del minerale fossero eseguite localmente. Altre condizioni includevano la costruzione di una centrale a carbone da 400 megawatt e una ferrovia fino al confine con il Pakistan.

È stato inoltre stabilito che l’85%-100% dei dipendenti, dalla manodopera qualificata al personale dirigente, sia di nazionalità afghana entro otto anni dalla data di inizio del lavoro. «Sebbene originariamente concordati, questi termini sono stati successivamente dichiarati onerosi dalle società, arrestando lo sviluppo della partnership», avverte però Scott L. Montgomery, un docente dell’Università di Washington sulla rivista The Conversation. Questa vicenda lascia aperta la domanda sull’impegno della Cina. Per alcuni Pechino potrebbe tornare alla carica. Ma, in tal caso, con gravi rischi di sfruttamento dell’area: secondo lo scienziato Rod Schoonover, dati i precedenti della Cina, la sostenibilità dei progetti minerari è tutta da verificare. Per altri esperti, i progetti di investimento cinesi poi bloccati, come quello sul rame, dimostrano che Pechino potrebbe essere scettica rispetto all’idea di collaborare direttamente con i talebani, data l’instabilità in corso, preferendo piuttosto sostenere l’influenza a Kabul di altri paesi amici come il Pakistan.

Resta il fatto che l’Afghanistan rappresenta un luogo di passaggio per la “Nuova Via della Seta”, l’iniziativa geoeconomica del governo cinese. Proprio per questo, Washington cerca di rispondere, sul fronte opposto, stimolando una politica di espansione dell’India, il primo competitor della Cina nell’Asia centrale. Coperta da obiettivi di sicurezza e di lotta al terrorismo, la finalità principale del governo Usa è quella di contenere l’espansione cinese verso ovest e le ex-repubbliche sovietiche e il conseguente accesso privilegiato alle risorse naturali della regione. L’India, nel frattempo, ha già impegnato un miliardo di dollari in progetti infrastrutturali e di assistenza in Afghanistan.

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