«In Afghanistan sono stati commessi innumerevoli errori: in primo luogo politici, culturali, di comprensione della realtà in cui si operava. Ma gli errori dell’Occidente non devono essere pagati a caro prezzo, al prezzo della vita stessa, da quanti in quel martoriato Paese hanno creduto in noi. L’Occidente è loro debitore. Lasciarli in balia dei Talebani sarebbe molto più di un tradimento. Sarebbe un crimine contro l’umanità». A sostenerlo è uno che la guerra l’ha conosciuta sul campo: il generale Franco Angioni, già comandante delle truppe terrestri Nato nel Sud Europa e del contingente italiano in Libano negli anni più duri della guerra civile che dilaniò il Paese dei Cedri.

Generale Angioni, come andrebbe letta la tragedia afghana? Si è parlato e scritto di fuga, di resa, di tradimento da parte dell’Occidente.
Lasciamo perdere le definizioni fuorvianti. La vicenda afghana va letta alla luce della storia. Della storia in generale e della storia di quel Paese in particolare. L’Afghanistan è un Paese diverso da tutti gli altri, per questione di tradizione, di costume. Che ci vogliamo fare, è così. Solo che gli americani hanno abboccato all’amo e si sono fatti trascinare nella “gestione” di questo Paese, come se si trattasse di un Paese normale. Ma l’Afghanistan non è un Paese normale. E fuori dalla norma, fuori dal tempo, fuori dalla storicità del momento. Non averlo compreso, illudendosi di poter “occidentalizzare” l’Afghanistan è stata la madre di tutti gli errori. Ora, però, questi errori non possono, non debbono essere scaricati sui civili afghani. Ora, il problema non è più politico ma totalmente umanitario. Non è possibile abbandonare milioni di persone alla mercé di gente ormai ubriaca di queste dottrine che noi non conosciamo, non vogliamo. Lo sottolineo di nuovo: ci siamo fatti coinvolgere in una situazione che sfugge al controllo.

Vent’anni fa, l’azione militare degli Stati Uniti e dei loro alleati, nacque come risposta a un immane attacco terroristico, quello delle Torri Gemelle. Ma poi quell’azione in cosa si è trasformata? Perché si è deciso di restare lì per vent’anni, anche dopo aver eliminato Osama bin Laden?
Perché quel Paese è turbolento, è stato visto come una minaccia al mondo. Gli americani si sono fatti agganciare da questa situazione, non sapendo o non volendo cogliere la peculiarità di quel Paese in cui si stavano andando a impantanare, e noi con loro. Si è colpevolmente sottovalutato il peso del fanatismo religioso e anche del tribalismo. Farsi coinvolgere in una situazione del genere è estremamente pericoloso e peraltro pure inutile. Capisco e posso anche apprezzare che esista una volontà di portare un Paese “eccezionale” nell’alveo della normalità occidentale. Ma perché questo obiettivo possa essere perseguito con qualche chance di successo, ci vogliono dei criteri che sono fuori delle norme occidentali. Bisogna entrare nella mentalità orientale e in particolare di quella vena religiosa. E questo non è stato fatto…

Perché, generale Angioni?
Per quella che io chiamo una forma di “infantile entusiasmo”, quello americano, volto a vendicare l’attacco alle Torri Gemelle. Si doveva agire razionalmente. Sia chiaro: non è che si doveva far finta di niente, assolutamente no, ma non imbarcarsi in un’avventura come se giocassimo a guardie e ladri tra ragazzini. Non era possibile, non era conveniente, e la storia di questi vent’anni lo ha dimostrato, farsi coinvolgere a casa loro in una guerra infinita. Il problema adesso è uscirne dignitosamente. Il che significa evitare di commettere altri errori e tenendo conto dei fattori umani. L’Occidente, essendosi così fatto coinvolgere in Afghanistan, ha dei debiti nei confronti di quel Paese e della sua gente. Perché ha introdotto delle novità, molte delle quali positive, penso per esempio ai diritti delle donne, e ora non è che possa dimenticarsene. Dire che il problema oggi è essenzialmente, se non unicamente, quello dell’evacuazione, è al tempo stesso una inaccettabile riduzione e, mi permetto di dire, anche un tradimento, questo sì, verso i tanti afghani che a quelle novità hanno creduto. Dopo aver commesso l’errore di pretendere di “educare” alla maniera occidentale quel Paese, ora non si può abbandonarlo alla ventura. Ormai, almeno in parte, l’Occidente ha “adottato” l’Afghanistan. Non possiamo disconoscerlo. L’Occidente si è lasciato coinvolgere nelle vicende di quel Paese, ci ha lasciato centinaia di migliaia di morti. Si è portato dalla propria parte un segmento non marginale della società afghana. Adesso questi sono nostri “compatrioti”, non li possiamo abbandonare. Li abbiamo coinvolti, dato loro una specie di cittadinanza occidentale, e ora non possiamo abbandonarli in balia delle arroganze talebane. Siamo umanamente e razionalmente coinvolti.

Non è una contraddizione parlare come fanno gli americani di ritiro, e poi mandare 6mila marines per gestire il ritiro stesso?
Sul piano operativo mi pare un numero eccessivo. Diciamo le cose come stanno: l’evacuazione, per essere completata senza altri spargimenti di sangue, necessita di una concertazione con le forze talebane, coinvolgendo in questa operazione anche i Paesi confinanti, come il Pakistan, l’Iran, le ex repubbliche sovietiche asiatiche. È un problema politico-diplomatico, non militare. Ridurlo a questo, significa persistere negli errori. Noi dobbiamo dare conto delle nostre azioni a quella parte più avanzata dell’Afghanistan. A quella parte di persone che parla l’inglese, anche l’italiano, che noi abbiamo “adottato”. E loro sono venuti con noi. A questo punto, dopo venti anni, non due giorni. È dall’inizio del 2000 che abbiamo “adottato” e coinvolto la popolaziona afghana. Quelli che oggi hanno 20 anni, sono nati con le nostre spinte, americane, italiane, tedesche, occidentali insomma. Questa gente è diventata oggi creditrice nei nostri riguardi e non possiamo abbandonarla. E bene fa l’Italia a dare rifugio a queste persone. È un nostro dovere, prim’ancora che un loro diritto. Mi lasci aggiungere una cosa che mi ribolle dentro sentendo discorsi “muscolari” da parte di chi un campo di battaglia o un’area calda non li ha visti neanche col binocolo. Non posso essere certo tacciato di essere un inveterato pacifista, so quanto sia indispensabile lo strumento militare per supportare azioni di peacekeeping o di institution building. Ma quello militare deve restare uno strumento e non trasformarsi in un fine. Perché altrimenti si combinano solo disastri, anche se “a fin di bene”. Per essere davvero efficace, lo strumento militare deve essere messo a servizio di una strategia politica, di una visione inclusiva e lungimirante. Perché una guerra può anche essere vinta sul campo, ma se poi non hai una strategia chiara per il dopo, allora sono guai, maledettamente seri.

Generale Angioni, nella sua lunga e prestigiosa carriera militare, lei ha vissuto i fronti più caldi. Basta citare il Libano, negli anni della sanguinosa, devastante guerra civile. Che differenza trova tra gli Hezbollah, con cui lei ha dovuto fare i conti, e i Taliban?
La differenza è alle origini. Perché hanno delle matrici completamente diverse. Nella realtà sono assimilabili. Sono fanatismi che vanno gestiti, compresi, che devono essere valutati non con il metro occidentale ma con quello locale. E di conseguenza devono essere accettati, o comunque con loro si deve interloquire, perché coinvolgono migliaia di persone che hanno una forma mentis e un’educazione diversa dalla nostra. Non devi comportarti da padrone a casa d’altri. Devi conoscere le persone con le quali hai a che fare, stabilire rapporti di dialogo fattivo con le popolazioni locali. È questo l’insegnamento che abbiamo avuto in Libano. Siccome noi, lo dico con modestia e tra virgolette, siamo più “avanzati”, più capaci di valutare, di accettare, di discutere anche, non possiamo essere così superbi da considerarci superiori e abbandonarli. No. Non l’abbiamo potuto fare con il Libano, benché il Libano sia più avanzato in termini globali, culturali e anche religiosi dell’Afghanistan. L’Afghanistan è invece una realtà del tutto autonoma, con un fanatismo che è unico nel mondo. E ha una cultura e un assetto sociali incomprensibili all’Occidente e ai principi umanitari universali. Quella rappresentata da Hezbollah come dai Taliban è una realtà, non è una moda. Non stiamo parlando di gruppi estremisti ristretti, dediti solo al Jihad, ma a movimenti complessi, anche articolati al proprio interno, che, ci piaccia o no, e certo a me non piace, rappresentano settori importanti delle rispettive società. Se non fosse così, sarebbero stati spazzati via da tempo, mi creda. Sono indietro di cento anni? Culturalmente dobbiamo accettarlo. Ma non è che possiamo ucciderli perché sono indietro di un secolo rispetto a noi. Resta il fatto che la cosa più importante è oggi quella di non tradire gli afghani che hanno creduto in noi. Abbiamo un dovere umanitario nei loro confronti. E quel dovere deve essere assolto.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.