Pechino stringe alleanza con i talebani
La Cina prende casa a Kabul e affonda gli Stati Uniti: “Abituati solo a distruggere”
La ritirata degli Stati Uniti dall’Afghanistan e la vittoria dei talebani, che ieri in conferenza stampa hanno promesso l’amnistia e che non si vendicheranno, ridisegnano la mappa diplomatica globale. «In Iraq, Siria e Afghanistan, abbiamo visto l’esercito americano che lascia caos, divisioni, famiglie devastate e decimate», spiega in conferenza stampa Hua Chunying, la portavoce del ministero degli Esteri cinese, criticando duramente il bilancio di due decenni di intervento americano. Poi, richiamando il discorso di Joe Biden, affonda il colpo: «Hanno lasciato un disastro terribile. Il potere e la funzione degli Stati Uniti è quello di distruggere, non di costruire».
E così la Cina apre alla “cooperazione amichevole” con i talebani e si dice pronta alla ricostruzione del paese. L’Afghanistan condivide con la Cina 70 chilometri di confine: può costituire una minaccia alla sicurezza della regione dello Xinjiang, la provincia cinese popolata dalla etnia musulmana uigura. Da alcuni anni Pechino ha stabilito nel territorio una sorveglianza poliziesca, violando ripetutamente i diritti umani della popolazione. Le autorità cinesi temono che i combattenti uiguri trovino rifugio e sostegno nel vicino Afghanistan.
Alla fine di luglio, in vista della conquista del paese, il mullah Abdul Ghani Baradar, oggi dato come possibile presidente ad interim del governo dei talebani, ha incontrato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi in Cina, promettendo che il suolo afghano non sarebbe mai stato utilizzato come base per attacchi contro la Cina. E il Dragone concede fiducia: mantiene aperta la sede diplomatica di Kabul e rinuncia a ritirare il proprio personale dall’ambasciata. Pechino prende sul serio la promessa degli insorti di dare vita a un governo “aperto e inclusivo” e di mettere fine agli atti di terrorismo e di criminalità. A queste condizioni, ma senza alcuna richiesta di rispetto dei diritti umani nel paese, Pechino “rispetterà i desideri e le scelte del popolo afghano” – così Hua Chunying – e contribuirà alla ripartenza economica con i progetti della Belt and Road: un programma di massicci investimenti legati al corridoio economico con il Pakistan che “aiuteranno il paese ad accelerare ulteriormente la ricostruzione pacifica”.
La strategia della Cina nei paesi in via di sviluppo è sempre la stessa: occupare il paese con gli ingegneri, non con i militari, chiudendo tutt’e due gli occhi sulle libertà e i diritti civili delle popolazioni locali. Nella giornata di ieri si è svolto un colloquio telefonico tra il Consigliere di Stato cinese e ministro degli Esteri, Wang Yi, e il Segretario di Stato americano, Antony Blinken: le due superpotenze sanno di essere costrette a collaborare in Afghanistan. Ma la Cina ha già chiarito che non accetterà ingerenze da parte degli Stati Uniti sulle questioni interne relative alla tutela dei diritti umani.
Nel frattempo, se Russia, Turchia e Iran cercano di inserirsi nella definizione dei nuovi equilibri nell’area, chi resta tragicamente silente è l’Europa. I governi europei hanno reagito con un misto di incredulità e senso di tradimento di fronte alla ritirata americana, considerandola un errore di portata storica. «Lo dico con il cuore pesante e con orrore per ciò che sta accadendo, ma il ritiro anticipato è stato un errore di calcolo grave e di vasta portata dell’attuale amministrazione», ha affermato Norbert Röttgen, esponente della Cdu e presidente della commissione per le relazioni estere del parlamento tedesco. Il ritiro americano, secondo Röttgen, «danneggia in modo fondamentale la credibilità politica e morale dell’Occidente».
D’altra parte, in questi giorni, la stessa Angela Merkel ha lasciato intendere di non condividere per nulla un ritiro così affrettato. La verità è che il senso di sgomento e spaesamento per la vittoria talebana, diffuso in tutta Europa, è particolarmente pesante per la Germania. Per i tedeschi, la campagna afghana era l’occasione per dimostrare, sia al mondo che a se stessi, che, sessant’anni dopo il nazismo, la Germania era cambiata. La missione in Afghanistan – assai criticata nel parlamento tedesco quando il cancelliere Gerhard Schröder la propose – è stato il primo grande dispiegamento di truppe tedesche dalla seconda guerra mondiale. Nel corso degli anni, la Germania ha sacrificato circa 60 soldati, ha investito diversi miliardi e ha accolto migliaia di rifugiati.
Ecco perché la sensazione di questi giorni è quella di aver sprecato 20 anni di presenza a Kabul. Ma la Germania è solo la punta dell’iceberg. Tutta l’Unione europea sembra paralizzata di fronte a questo evento. Da una parte, il presidente francese Emmanuel Macron aveva spinto nei mesi scorsi i paesi membri a perseguire una politica di sicurezza meno dipendente dall’America, nel nome del principio di “autonomia strategica”. Ma in questi giorni concitati dai palazzi di Bruxelles non arrivano ancora segnali di vita.
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