In Afghanistan si sta consumando una crisi politica e una tragedia umanitaria dove il rischio di una “nuova Libia”, vale a dire di un paese lacerato da una guerra civile tra fazioni, è altissimo. D’altra parte, propedeutica è stata la scelta dell’Amministrazione Trump, poi confermata da Biden, di ottenere una sorta di salvacondotto per il ritiro delle truppe straniere con una sequenza temporale concordata con i cosiddetti talebani moderati a Doha. Tale accordo, risalente al 29 febbraio 2020, ha permesso a quelle forze “moderate” di organizzarsi per sconfiggere in pochi giorni l’esercito regolare afghano, che noi occidentali abbiamo addestrato. Una resa praticamente già firmata, certo non ha incentivato la voglia di combattere contro i talebani dell’esercito regolare (da cui pure era giusto aspettarsi un comportamento diverso).

L’esito è sotto gli occhi di tutti: una situazione drammatica per centinaia di migliaia di persone, che hanno già conosciuto i talebani e non vogliono di nuovo sottostare alla legge della sharia. E l’accordo di Doha non li aiuta: nessun cenno si trova rispetto all’impegno di mantenere le libertà e i diritti civili acquisiti in questi venti anni, anzi di diritti umani proprio non si parla. Si parla solo di garantire un ritiro in sicurezza delle truppe della coalizione e di prevenire qualsiasi ritorno dei santuari del terrorismo. Per il resto è stato lasciato tutto a negoziati intra-afghani che non sono mai decollati, con i talebani che non hanno mai concesso nulla. Il 50% della popolazione afghana è sotto i trent’anni e quindi ha vissuto o è cresciuta, soprattutto nelle città, in un clima totalmente diverso da quello che i talebani vorranno ristabilire: non voglio farmi illusioni, vedremo se questo elemento sia destinato ad avere qualche rilevanza, oppure no, nel futuro di quel paese. Il nostro impegno deve essere quello di provare a non abbandonare al proprio destino le donne e gli uomini che resteranno in Afghanistan avendo maturato l’idea che si possa vivere, anche in una repubblica islamica, in base a criteri minimi di rispetto dei diritti umani e di partecipazione.

Anche per questo sono lieto che il Governo italiano stia spingendo con determinazione presso il Consiglio diritti umani dell’Onu a Ginevra per stabilire un meccanismo di monitoraggio secondo il diritto internazionale: non sarebbe risolutivo ma sarebbe un modo per mantenere un faro acceso sul paese, un segnale di “non abbandono”. Europei e statunitensi erano in Afghanistan per la prima volta sulla base dell’art.5 del Trattato NATO, quello sulla sicurezza collettiva, all’insegna del “together in, together out”. Non c’è dubbio che il contributo maggiore, in termini militari ed economici, è stato fornito dagli USA e, difatti, modalità e tempi del ritiro sono stati decisi da Washington che, a Doha, ha preso impegni divenuti vincolanti anche per gli alleati.

In questa tragedia dove non si vede la fine, continuiamo a parlare di solidarietà nei confronti degli afghani a condizione però che non vengano in Europa. La riunione del Consiglio Affari Interni della UE di martedì scorso ha confermato quest’impostazione di fondo, con insolite alleanze tra paesi che rifiutano qualsiasi forma di accoglienza preferendo appaltare la gestione ai paesi confinanti già stracarichi. Le parole del nostro Presidente della Repubblica di pochi giorni fa a Ventotene hanno giustamente indicato che la solidarietà non può prescindere dall’accoglienza, e soprattutto hanno sottolineato che proprio ora, se vogliamo contare qualcosa sullo scacchiere internazionale, l’Europa ha bisogno di una politica estera e di difesa all’altezza delle sfide che deve affrontare. Ogni spazio vuoto viene sempre occupato da altri, in questo caso da Russia e Cina, mentre Pakistan, India, Turchia e monarchie del Golfo si riposizionano, con una chiara crescita del ruolo di mediatore del Qatar.

È indispensabile e urgente, quindi, che l’Europa – anziché rimanere paralizzata dalla discussione propagandistica sui migranti – agisca unita e si assuma maggiori responsabilità nel campo della difesa e della sicurezza globali, diversamente il rischio è di diventare sempre più irrilevanti. Dobbiamo definire i nostri interessi strategici dentro e a fianco della NATO, e svolgere la nostra azione di stabilizzazione e di pace insieme ai nostri partner in un quadro multilaterale. In questo senso, il tentativo del Presidente del Consiglio Draghi di promuovere nel quadro del G20 una posizione coordinata e politicamente sostenibile è una sfida e un’opportunità che va sostenuta fino in fondo.

Come europei potremmo operare da una posizione di forza solo se capissimo finalmente che occorre agire uniti sulla questione umanitaria dei profughi, sulla produzione di oppio da sempre la maggiore fonte di finanziamento dei talebani, sul ruolo geostrategico che vogliamo dare al nostro continente per influire in maniera positiva e duratura in quel martoriato paese, promuovendo al contempo i nostri valori e i nostri interessi. Viceversa saremo un blocco di cinquecento milioni di abitanti che non avrà alcun ruolo lì, come altrove a livello mondiale.