Il dramma afghano e i rapporti tra Usa e Ue
“Addio a Kabul un disastro, ma era una guerra figlia di un’altra epoca”, parla l’ambasciatore Massolo

Se c’è una persona che per esperienza e incarichi ricoperti, può davvero aiutare a comprendere al meglio gli accadimenti afghani, questa persona è l’ambasciatore Giampiero Massolo. Presidente di Fincantieri S.p.A. (dal 2016) e Presidente dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale – ISPI (dal 2017). l’ambasciatore Massolo, diplomatico di carriera, ha svolto funzioni di Direttore Generale del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza presso la Presidenza del Consiglio (2012-2016), di Sherpa del Presidente del Consiglio dei Ministri per i Vertici G8 e G20 (2008-2009), di Segretario Generale del Ministero degli Affari Esteri (2007-2012). L’ambasciatore Massolo è titolare di corsi sui temi della sicurezza e delle relazioni internazionali presso la School of Government dell’Università LUISS di Roma e presso la Scuola di Affari Internazionali-Sciences Po a Parigi. Insomma, un’autorità assoluta in materia.
In queste settimane in molti si sono cimentati nel definire gli accadimenti in Afghanistan e le scelte dell’Occidente, America in primis: fuga, resa, tradimento o, su versante opposto, una decisione che doveva essere presa almeno 18 anni prima. Ambasciatore Massolo, ora che l’ultimo marine ha lasciato Kabul e gli Usa hanno posto fine alla guerra più lunga della loro storia, Lei come la vede?
Io la vedo così: la guerra in Afghanistan era figlia di un’altra epoca. Questa epoca è finita. Che l’operazione-Afghanistan dovesse concludersi con un ritiro, questo era logico e condiviso da tutti. Che il ritiro assumesse le caratteristiche di un disastro, questo non era previsto e neppure auspicabile.
Perché “figlia di un’altra epoca”?
C’era stato lo shock dell’11 Settembre, avevamo un governo talebano che aveva ospitato i santuari di al-Qaeda. Quel governo andava sostituito ed eliminati i santuari terroristici. Questa operazione era riuscita e anche negli anni questi aspetti avevano complessivamente retto. Con questo non voglio dire che le sacche di terrorismo jihadista in Afghanistan fossero state del tutto eliminate, però sicuramente erano state di gran lunga ridotte. Era poi l’epoca dell’interventismo liberale, l’epoca della salvaguardia delle risorse energetiche del Golfo, e questo evidentemente negli anni ha subito una evoluzione. Gli Stati Uniti si sono sentiti meno esposti al jihadismo in ragione della loro cosiddetta “insularità”. Attraverso lo shale gas sono addirittura diventati esportatori netti di prodotti energetici, e dunque si sono resi meno dipendenti dal petrolio del Golfo. Quella che si era prodotta sul terreno era una situazione in cui l’Occidente non avanzava più, quello che doveva essere fatto sostanzialmente era stato raggiunto. I Talebani non vincevano, era una situazione di sostanziale stallo. Con un “piccolo” particolare…
Quale, ambasciatore Massolo?
Che questo stallo era a spese del contribuente occidentale. Nel senso che tutta quella macchina era una macchina molto costosa e quella situazione non poteva essere prolungata indefinitamente. Sul ritiro erano sostanzialmente d’accordo tutti. Sui tempi e le modalità, gli alleati europei avevano chiesto e consigliato gradualità e tempi più lunghi, ma il ragionamento fatto a Washington è stato, in buona sostanza, non facciamo più comunque la differenza anche se rimaniamo qualche mese in più e anzi corriamo il rischio di tornare ad essere risucchiati in un conflitto che nessuno vuole più.
E in tutto questo, Biden?
Beh, Biden si è trovato in qualche modo anche obbligato dagli accordi che aveva negoziato Trump. Trump aveva negoziato una resa, non aveva negoziato sul futuro dell’Afghanistan, e quindi era molto difficile anche per il presidente degli Stati Uniti modificare radicalmente, in queste condizioni, quegli accordi. Detto questo, le modalità dell’uscita sono state disastrose, tali da lasciare delle tracce, sia di carattere umanitario, nell’immediato, sia nei confronti della reputazione dell’Occidente e dei Paesi occidentali, sia nei rapporti fra Europa e Stati Uniti.
A proposito di quest’ultimo aspetto. Storicamente, l’Afghanistan è stato definito il “cimitero degli imperi”. È anche il “cimitero” della Nato?
Io non credo affatto che l’alleanza occidentale sia finita e non credo affatto che la Nato, che è poi la sede naturale attraverso la quale si articola il rapporto fra gli Stati Uniti e l’Europa nelle questioni di sicurezza, sia venuta meno. Certo, è chiaro che gli europei devono prendere atto del fatto che l’interesse nazionale di sicurezza degli Stati Uniti si sposta sempre di più verso un altro scacchiere che è quello dell’Asia sudorientale, dei rapporti con la Cina e sempre meno coinvolge il cosiddetto Medio Oriente allargato. Proprio per questa stessa ragione gli Stati Uniti da un lato si aspettano che l’Europa faccia la sua parte quando ci sono in gioco gli interessi di sicurezza europei, ma dall’altro lato Washington non può dimenticare o non tener conto che esistono delle differenze di sensibilità dal punto di vista della sicurezza. Quindi, solidarietà alleata ma non si possono ignorare le differenti esigenze, le differenti sensibilità e poi le differenti conseguenze che questo ha sul campo. Tutto ciò evidentemente comporterà, per un verso, la necessità per l’Europa di articolare meglio la propria difesa, la propria sicurezza, la propria capacità di stare negli scenari dai quali dipende la sicurezza europea; da un altro verso comporterà una ridefinizione del rapporto fra le due sponde dell’Atlantico perché fra alleati bisogna anche tenere conto delle diverse esigenze di ciascuno.
Molto si discute su trattare o no con il governo dei Talebani. La metto giù un po’ brutalmente: ma se non con il nemico, con chi si negozia?
Parlare non significa certo riconoscere, e non significa certo fare delle aperture a priori. Parlare è necessario in questo momento, perché il solo fatto che si pensi, a mio avviso giustamente, a dei corridoi umanitari, a corridoi sicuri per portare fuori dall’Afghanistan ancora quanto resta di componente occidentale, di persone occidentali ma soprattutto anche di chi tra gli afghani è a rischio per aver collaborato in perfetta buona fede con l’Occidente, questo comporta necessariamente parlare con i Talebani. Il controllo del territorio lo stanno acquisendo, non so se lo abbiano ancora del tutto ma non c’è dubbio che lo stanno acquisendo i Talebani, e con loro non si può non parlare nell’immediato, da questo punto di vista. Successivamente, è chiaro che noi, parlo dei Paesi occidentali, parlo dell’Italia, abbiamo investito molto in Afghanistan. Abbiamo investito in vite umane, abbiamo investito in risorse materiali, abbiamo investito in difesa, in intelligence e tutto questo non può andare perso. E quindi io credo che la comunità internazionale debba essere molto esigente nei confronti dei Talebani, a tutela dei diritti, a tutela delle donne, a tutela dei più vulnerabili, dei più deboli. E anche per evitare nuovi santuari jihadisti. Per fare questo ci sarà bisogno di una interlocuzione con i Talebani. Ovviamente una interlocuzione molto condizionata e molto esigente. E qui la comunità internazionale e soprattutto l’Occidente, può far valere una leva importante che è quella degli aiuti materiali, di quelli finanziari, ancor prima del riconoscimento, un fatto che, semmai dovesse arrivare, arriverà alla fine di un processo e con un carattere più formale che sostanziale.
In ultimo, l’aspetto geopolitico. In una realtà planetaria nella quale non esiste più una iper potenza globale che possa ergersi a “Gendarme” del mondo, non ritiene, guardando all’Afghanistan ma non solo, che un multilateralismo che funziona debba prevedere una qualche forma di partnership strutturata fra l’Occidente e altri attori globali e regionali, come la Russia, la Cina, e per restare al Grande Medio Oriente, l’Iran, la Turchia, i Paesi del Golfo?
L’Afghanistan e più in generale il proliferare delle situazioni di vuoto di potere e di Stati falliti induce a ricercare modalità di lavoro comune della comunità internazionale. Anche tra paesi competitors o addirittura ostili. Nel caso dell’Afghanistan, è poco realistico pensare a stabilizzarlo senza corresponsabilizzare paesi come quelli da lei citati. Né l’Occidente può abbandonare l’Afghanistan nelle loro mani: potrebbero stabilizzarlo a nostro danno. È proprio lo sforzo che sta facendo il Presidente Draghi, per fare in modo che il G20 che presiediamo possa dare il suo contributo per far lavorare insieme tutti i paesi interessati.
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