Da mezzo secolo nessuno come lui racconta l’Italia che cambia, osservando, fotografando e valutando la società che si evolve. Per questo suo “dono”, il presidente del Censis Giuseppe De Rita è una delle pochissime autorità morali del Paese, un maestro, come si dice con un’espressione che  non molti meritano.

Come sta cambiando la società italiana dopo due eventi traumatici, come la pandemia e la guerra?
La società è segnata da un elemento cruciale: l’incertezza. Che non è solo paura, è la paura dell’incertezza futura. La pandemia l’abbiamo vissuta con qualche speranza,  perché il ‘vaffa’ lo avevamo vissuto con rancore e la pandemia ha un po’ spezzato il rancore, perché nessuno pensava più a mandare all’altro paese qualcuno. Ma è subentrata l’insicurezza, che aveva inizialmente lo stesso aggancio del vaffa: cioè il rifiuto dell’altro. Meglio: con mascherine e distanziamento c’era paura dell’altro.

Questo meccanismo dell’incertezza non è stato coperto dall’opinione (perché la grande battaglia di opinione è arrivata verso la fine con il vaccino) ma da alcuni intellettuali da una parte e i virologi dall’altra. Con la guerra sono aumentate l’incertezza e la paura. Siamo entrati in questa legislatura repubblicana sotto il segno del rancore grillino – l’Italia del rancore: io stesso mi sono esercitato a capire che cos’è il rancore e “il rancore è il lutto di ciò che non è stato” diceva Girard. La paura non ha la spiegazione del lutto, è una cosa molto più radicale, più viscerale e molto meno intellettualizzabile. La paura e l’incertezza della guerra, non si spiegano razionalmente. Questo è il difetto di oggi, che hai un meccanismo principe di incertezza su cui neppure l’opinione si può esercitare se non nell’esaltazione dell’incertezza.

Lei ha recentemente aperto una riflessione sull’avanzare del dominio dell’opinionismo, dell’opinione personale a discapito dell’approfondimento e del confronto. Come si è arrivati a questo punto?
Il dominio dell’opinionismo ha conosciuto tre fasi: il grillismo, la pandemia e la guerra. Il primo si è affermato con la stanchezza per la dimensione tecnica, dei competenti, delle statistiche e ha portato al rifiuto del dialogo e della comprensione. Da questo punto di vista Grillo è stato un grande perché ha capito che nella società italiana c’era la voglia di rottura attraverso il ‘vaffa’. Se per esempio un Ministro del Tesoro dice ‘le cifre sono queste’, qualcuno può rispondere ‘questo lo dice lei’: è la fine della competenza, del merito, in virtù del fatto che un’opinione vale l’altra e due più due non fa più quattro. Questo ha portato, con le elezioni 2018, al populismo spinto, dove hanno vinto le opinioni perché non c’era più neppure la struttura di partito che sceglieva il candidato di collegio: il parlamento attuale è di fatto l’espressione della prima esplosione di opinionismo.

La seconda esplosione è avvenuta con la pandemia, tra i virologi: c’era chi diceva una cosa, chi l’esatto opposto e non c’era informazione che invece sarebbe dovuta essere precisa, unitaria, pubblica. Con l’arrivo della guerra, la terza fase di esplosione dell’opinionismo, siamo al punto che trasmissioni televisive si litigano gli opinionisti, come fa Berlinguer su Rai Tre ma non è l’unica, e si scelgono quelli che fanno più casino. Siamo arrivati se siamo americani o filorussi, se siamo per Biden, con Johnson, con Scholz in base alla simpatia. Tutto questo è inaccettabile per chi fa un mestiere come il mio. Non si fa più discussione, dialettica, cultura.

Quando è iniziata l’era dell’opinionismo?
Un salto indietro è difficile farlo, ma la mia idea è che potrebbe essere cominciata con il lamalfismo, con il partito d’opinione e non il partito di apparato o di appartenenza.
Oggi l’opinione scade tutti i giorni sul livello più basso. Ad esempio, su un articolo di Adriano Sofri che sulla sinistra italiana ha detto che ‘siamo passati dal gradimento al tradimento’, non c’è stata neanche una persona che abbia risposto, l’ho citato io sul Corriere. Chi nella società dell’opinione porta i dati viene messo subito da parte come un rompiscatole e non se ne parla neppure.

Dopo la bulimia da informazione “veloce” degli ultimi anni, è possibile tornare a una nuova “alfabetizzazione”?
Bisogna aspettare qualche anno: io credo che i social e il tipo di informazione e socializzazione che portano quello che potevano dare lo hanno dato, nel bene e forse più nel male. C’è il bellissimo nuovo libro di Filippo Ceccarelli che si chiama ‘Lì dentro’: analizza trecento pagine social e si vede chiaramente come questi abbiano già dato e probabilmente più di questo non danno. Si sente chiaramente la stanchezza di una informazione che alla fine ha soltanto, per il 60-70%, sfruttato reazioni offensive, di rancore. E io penso che del rancore ce ne stiamo in qualche modo liberando, come anche dello strumento principe del rancore che sono stati i social.

Il riformismo, quello che ha fatto l’Italia grande nel secondo dopoguerra, ha un futuro oppure è diventato soltanto un esercizio accademico della politica?
Il riformismo ha avuto una grande sfortuna: è stato il luogo della bella opinione; il lamalfismo, il nennismo, il berlinguerismo… per certi versi anche Craxi. “Io sono riformista e pongo l’idea della riforma come cosa che suscita una opinione favorevole”… E’ stato così o no? E perché non è stato così? Non è stato così per una ragione molto semplice: che la storia è andata in maniera diversa. La società italiana è andata evolvendo. Come ho detto in un libro in cui ci sono le 50 considerazioni generali del rapporto Censis che ho scritto dal ‘67 al 2018, “dappertutto e rasoterra”, non nell’apice della cultura politica, non nell’attico del pensiero politico: la cultura riformista elaborava le riforme e le riforme non si attuavano perché tutto sommato non puoi fare delle riforme in una società che cambia radicalmente in forme non coerenti con le tue idee di opinione.

Ad esempio: non puoi fare la riforma del fisco, dicendo che è necessario per il riequilibrio tra le classi quando c’è l’esplosione dell’economia sommersa, perché è contro la storia: bello storicamente ma contro la realtà. Non puoi fare una riforma della scuola – come quella del ‘63 – dicendo che devi fare incontrare il pubblico e il privato, quando invece la gente vuole soltanto più insegnanti, più scuola, più classi, più scolarizzazione. Ogni grande meccanismo di riforma in Italia aveva questo grande vizio: che non partiva dal basso, non partiva dalla realtà. Se il riformismo avesse la capacità di proporre riforme che in qualche modo rispettino una parte della società che viene, che si realizza, forse ce la farebbe. Se invece si rifugia nella nobiltà di affermare il primato di una riforma, non ce la fa.

Cosa vede nella fotografia dell’Italia del 2030?
Sono realista. Nel 2030 avrò quasi 100 anni, probabilmente non ci sarò e quindi non faccio previsioni. Con l’andar del tempo e con l’età mi interesso più alla fenomenologia: mi piace ‘vedere’ i fenomeni piuttosto che prevedere. Ricordo sempre un fatto: quando facemmo il Censis mi invitò a colazione Tommaso Morlino – era il 1963 – un  democristiano, un grande uomo di Moro. Mi disse: “Sul Censis lascia perdere la programmazione, le previsioni: meglio la fenomenologia”. Lo seguii alla lettera»