Poniamo il caso che domattina Netanyahu ordinasse al suo esercito il ritiro totale delle truppe e la fine delle ostilità, in cambio della restituzione dei 50 rapiti ancora nelle mani di Hamas, vivi o morti che siano. Avremmo una Gaza di nuovo libera da israeliani, come è stato per quasi vent’anni, dal 2005 fino al tragico e famigerato 7 ottobre 2023. Eppure, in quel ventennio di dominio dei tagliagole, la società palestinese non è riuscita minimamente a creare una rete democratica di strutture civili.

Dal 1948, lo Stato di Israele – nato grazie anche a persone scampate a dittature feroci come la Germania nazista e l’Unione Sovietica comunista – ha saputo costruire, pur tra guerre e conflitti, un tessuto democratico e liberale che ancora oggi permea la vita quotidiana del Paese. Hamas, invece, se solo avesse voluto, avrebbe potuto investire le enormi risorse ricevute in educazione, cultura, infrastrutture, orientando la popolazione verso la pace e la convivenza con Israele. Non è accaduto: né nella Gaza “Judenfrei”, né nella Ramallah dell’Autorità Nazionale Palestinese. Si è scelto piuttosto di coltivare l’odio e il disprezzo verso gli ebrei, di alimentare la politica del terrorismo e della guerra.

Troppi i festeggiamenti, negli anni, con clacson urlanti per la morte delle «scimmie ebree» dopo ogni attentato palestinese. Delirante l’indottrinamento al disprezzo inculcato già nelle scuole dell’Unrwa. I palestinesi non hanno mai sognato la pace con Israele, ma la sua distruzione. Anche i giornalisti di Gaza, nella maggior parte embedded con Hamas, non potrebbero lavorare altrimenti.

Le voci pacifiste palestinesi sono state sempre flebili, spesso alimentate solo da iniziative congiunte con israeliani. Intellettuali gazawi favorevoli a una vera pace – non alla “fine dell’occupazione”, che a Gaza non esiste da oltre vent’anni – non se ne vedono. Mancano scrittori, filosofi, pensatori palestinesi che si levino a favore della convivenza. Al contrario, vanno ricordati esempi israeliani come lo scrittore Etgar Keret, voce pacifista che ogni sabato partecipa a Tel Aviv alle veglie contro la guerra mostrando la foto di un bambino palestinese ucciso in un raid di Tsahal. Commovente gesto. Ma qualcuno ha mai visto, in questi mesi, un palestinese esibire l’immagine di Kfir Bibas, trucidato a un anno di vita dopo essere stato rapito e seviziato dalle belve di Hamas?

Tra i video più raccapriccianti del dopo 7 ottobre ce n’è uno meno violento di altri, ma forse ancora più atroce: mostra un bambino israeliano deportato a Gaza dopo aver visto sterminata la propria famiglia. Nel filmato è tenuto “in custodia” da una famiglia palestinese, circondato da coetanei che lo deridono chiamandolo «yahud», ebreo, usato come insulto. Un adulto gli punta sotto il mento un frustino, chiedendogli con scherno dov’è la sua «imma», la mamma, probabilmente assassinata proprio da quell’aguzzino. Questa è Gaza: questa è la gente con cui Israele dovrebbe convivere in pace.

Infine, la politica italiana. Qualche mese fa il senatore Scalfarotto ha invitato in un’aula istituzionale due coraggiosi dissidenti palestinesi, oppositori della tirannide di Hamas. Ad ascoltarli c’erano il senatore Lucio Malan (FdI), l’onorevole Piero Fassino (Pd), pochi altri deputati e senatori. Assenti i “pacifisti” di M5S e Avs, quelli che ogni giorno intossicano il dibattito esordendo con «il genocida Netanyahu». Convinti dai loro capi che esista una «retorica del 7 ottobre», non vedono più, non sentono più, non parlano più di altro, come le famose scimmiette delle emoji. E invece sarebbe il caso, una volta per tutte, di guardare alla società palestinese e alle sue responsabilità, evitando discorsi fatui su Israele.

Ruben della Rocca

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