L’€conomista
La follia coreana esplode anche in Italia. K-pop e K-drama, come ha fatto Seul a dominare l’industria dei contenuti
Quando è esplosa questa follia coreana? Mi chiedevo… Quando e come un Paese con 51 milioni di abitanti e il cui PIL è un sedicesimo di quello degli Stati Uniti è diventato una delle maggiori potenze mondiali dell’industria dei contenuti?
Questa passione globale per la cultura di massa sudcoreana non ha niente di estemporaneo. Al contrario è il prodotto di una lungimirante politica economica del Paese, chiamata Hallyu, l’onda coreana. La Corea del Sud, o Repubblica di Corea, fino a sessant’anni fa era una nazione poverissima, devastata da due guerre. In pochi decenni è stata protagonista di cambiamenti impressionanti e ha attraversato uno sviluppo talmente sorprendente da essere considerato uno dei più grandi miracoli economici della modernità. Ma come è potuto succedere?
Succede che negli anni ‘90, tutto a un tratto, il governo sudcoreano si rende conto che Jurassic Park ha incassato più della produzione annua di auto Hyundai, e da quel momento decide di puntare massicciamente sull’industria culturale. Per il governo, promuovere l’industria dei contenuti diviene ben presto la risposta più efficace alla quarta rivoluzione industriale.
Ma il governo della Repubblica di Corea capisce anche che la produzione culturale ha una rilevanza strategica nello scenario geopolitico mondiale, perché genera soft power. Tra il 2015 e il 2023, Seul ha investito circa 3,3 miliardi di dollari in K-pop, K-drama, film, fumetti, animazione, videogame, start up, attraverso quello che è soprannominato il “fondo dei fondi”: il “Cultural Content Production Fund”. Nel 2024 il governo ha annunciato un piano di investimenti per il triennio 2025/2027 di 2,5 miliardi di dollari, con un focus particolare sulla salvaguardia delle proprietà intellettuali coreane. L’obiettivo di questa ulteriore espansione degli investimenti è dichiarato: fare della Corea la quarta industria dei contenuti del mondo, dopo Usa, Cina e Giappone.
La strategia coreana si distingue da quella occidentale per due caratteristiche piuttosto lampanti. La prima è che postula il ruolo centrale del soft power attraverso l’industria dei contenuti. La seconda è che ha successo: un successo pluridecennale. Mentre la maggior parte dei Paesi occidentali si barcamena tra scioperi, riforme e contro-riforme, l’industria culturale coreana macina risultati e record. Negli ultimi 15 anni, la Corea è diventata uno dei maggiori esportatori netti di contenuti culturali. L’espansione globale dei prodotti culturali coreani ha accresciuto il potere del marchio della Repubblica di Corea e favorito il turismo che registra una crescita del 33% su base annua. L’Hallyu ha permesso di esportare con successo una vasta gamma di prodotti – musica (K-Pop), serie televisive (K-Drama), film, videogame, fumetti – e di importare popolarità. I K-drama trasmessi su Netflix sono oggi il contenuto non in lingua inglese più visto nel mondo. Nel 2020 Parasite ha incassato nel mondo 254 milioni di dollari, ha vinto la Palma d’oro al festival di Cannes e ben 4 Oscar ed è stato il primo film non in lingua inglese nella storia del premio a vincere il titolo di “Miglior film”. Nel 2024 la scrittrice coreana Han Kang è stata la prima donna asiatica a vincere il Nobel per la letteratura.
Hallyu si è dimostrata una vera strategia nazionale di branding e uno strumento per divorare quote di un mercato, quello dei contenuti e dei servizi, che oggi cresce molto più velocemente di quello dei prodotti fisici. Per questo, mentre ci interroghiamo su come riformare il sostegno pubblico all’audiovisivo italiano, vale la pena tenere bene a mente questo modello vincente di strategia economica di lungo periodo. Fatta una doverosa taratura allo strumento, come il nostro Ministro ha giustamente annunciato di voler fare, dovremmo tenere a mente che il Tax credit esiste in decine e decine di Paesi, compresi tutti i Paesi occidentali, e che perfino la California, la patria del cinema mondiale, questo mese ha più che raddoppiato il suo plafond annuale di tax credit e ha aumentato le aliquote, per tentare di porre fine alla fuga delle sue produzioni verso l’estero, attratte dagli incentivi fiscali locali.
Per emergere nella competizione globale è necessario avere chiaro l’obiettivo di lungo periodo. L’Italia è stata l’industria cinematografica più forte del mondo dopo gli Stati Uniti, qualche decennio fa. A quel tempo il Made in Italy viaggiava sulle Cinquecento e le Olivetti, ma anche attraverso i fotogrammi del neorealismo e della commedia all’italiana. Oggi quale posto vogliamo occupare nel mercato globale dei contenuti? Questa è la domanda a cui dobbiamo rispondere prima di ripensare lo strumento del Tax credit. Se lo Stato si ritaglierà un ruolo propulsore dell’industria culturale, l’Italia potrà tornare ad essere il Paese di cui una liceale di Seul parla entusiasta alla madre. Il Paese che si insinua nei modi di dire di mondi lontani. Il Paese che esporta miti, stili, neologismi, sogni; cultura. E importa simpatia e ammirazione.
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