Esperto in campo di affari pubblici, consigliere in materia di energia, trasporti, finanza e televisione, Luigi Ferrata è oggi responsabile a Roma del Rud Pedersen Group, società leader in Europa nella consulenza di Public Affairs e Comunicazione.

Luigi, hai iniziato a lavorare nelle relazioni istituzionali nel 2004. Qual è stato il tuo primo incarico significativo e cosa ti ha fatto innamorare di questo mestiere?
«Quando ho iniziato ero in un grande network di consulenza internazionale, seguivo il caso Khodorkovsky: un imprenditore russo, incarcerato da Putin e deportato in Siberia. Il nostro ufficio in Italia faceva attività di advocacy per sensibilizzare il Governo italiano affinché sollevasse il caso in alcune sedi: dal G8, al Consiglio Europeo passando per le Nazioni Unite. Il tema era la violazione dei diritti umani in quello che era a tutti gli effetti un processo farsa. Gli altri uffici del network lavoravano in parallelo nei rispettivi Paesi. Ecco quella è stata una vera scuola: eravamo coinvolti in un progetto di comunicazione integrata, in cui le relazioni istituzionali si intrecciavano con quella che era una strategia mediatica di scala globale. Era un tema di prima pagina in tutto il mondo. Lì ho capito quanto potente e delicato potesse essere questo mestiere».

In quegli anni poi hai lavorato per società come Reti, SEC, Community oltre che per lo Studio Cisnetto. Ci sono aneddoti che ti tornano spesso alla mente?
«Vedi, sono tutte realtà che, pur con approcci diversi, sono o sono state molto importanti per il mercato italiano, guidate da ottimi professionisti. Gli aneddoti sarebbero tanti, soprattutto quelli legati ai progetti internazionali: mi è capitato, ad esempio, di lavorare per governi esteri, o di partecipare a vertici in cui si incrociavano leader politici e grandi imprenditori italiani. Ricordo perfettamente riunioni con Ministri italiani e stranieri in contesti informali, dove si discuteva liberamente di geopolitica e di investimenti, o le riunioni a Bruxelles dove si decidevano strategie comuni tra capitali diverse. Esperienze che, al di là dell’aspetto professionale, ti formano soprattutto umanamente».

Hai ricoperto ruoli sempre più rilevanti fino a diventare Head of Public Affairs di Engineering Group, che è leader nella digital transformation: in che modo questa trasformazione ha cambiato anche il modo di fare relazioni istituzionali?
«Engineering è una realtà straordinaria, una sorta di “magic box” piena di soluzioni per affrontare le grandi sfide del nostro tempo: sanità, transizione ecologica, mobilità, sicurezza, pubblica amministrazione. In un contesto simile, anche le relazioni istituzionali devono evolversi: oggi non basta rappresentare interessi, bisogna saper interpretare il cambiamento. Sai uno degli episodi più curiosi risale a quasi 2 anni fa, poco dopo il lancio di ChatGPT: suggerii a un senatore di leggere in aula un intervento interamente scritto dall’intelligenza artificiale. Alla fine del discorso, dichiarò apertamente che il testo era stato redatto da un algoritmo. Voleva accendere un faro sulle opportunità e sui rischi dell’AI. Fu probabilmente il primo discorso parlamentare, in Europa, interamente generato da una macchina, e la notizia rimbalzò anche all’estero».

Hai gestito progetti sia a livello italiano che europeo: come cambiano le dinamiche di lobbying quando si affrontano le istituzioni Ue rispetto a quelle nazionali?
«Allora, a Bruxelles le dinamiche sono certamente più codificate, il processo decisionale è più strutturato e multilivello. Si lavora molto sulla fase ascendente della legislazione, con interlocutori spesso tecnici e tempi più prevedibili. In questo caso serve un approccio orientato alla costruzione del consenso tra attori diversi, con una grande attenzione alla documentazione, agli impatti trasversali e alla trasparenza. In Italia, invece, il sistema è un po’ più fluido, a tratti meno prevedibile, ma consente anche margini di intervento più diretti e personalizzati. La vera sfida è sapersi muovere agilmente in entrambi i contesti, senza perdere coerenza. Lavorando in una società internazionale come Rud Pedersen, sperimentiamo quotidianamente un rapporto molto stretto con Bruxelles, secondo una logica hub & spoke. Molte aziende internazionali infatti preferiscono avere un interlocutore unico a livello centrale, che coordini l’intero progetto con una visione europea, appoggiandosi poi alle sedi nei singoli Paesi. L’alternativa sarebbe doversi confrontare con tanti operatori diversi e scollegati tra loro. In questo contesto, ci qualifichiamo anche come ponte tra Roma e Bruxelles, perché ci rendiamo conto che molti interessi italiani, anche legittimi e ben strutturati, restano spesso sottorappresentati in sede europea. Siamo convinti che potrebbero essere portati avanti con maggiore efficacia, se solo ci fosse una connessione più stabile, consapevole e tempestiva tra il livello nazionale e quello comunitario. Ecco, in sintesi, la nostra ambizione è essere questo ponte».

Sei membro di AREL e del comitato scientifico di ASviS: in che modo queste esperienze associative hanno arricchito il tuo lavoro quotidiano?
«Think tank come AREL sono, da sempre, il motore dell’azione legislativa. Partecipare ai loro lavori e ai seminari, dove si incontrano alcuni dei principali attori istituzionali e del business italiano, ti offre una visuale rara, difficilmente riscontrabile altrove. Quanto ad ASviS, anche quella è stata una palestra formativa: quando è partita in pochi sapevano cosa fosse l’Agenda 2030, la sostenibilità o gli SDGs. In questi anni, invece, ASviS ha fatto tantissimo in termini di advocacy verso l’opinione pubblica e le Istituzioni, contribuendo persino a modificare la Costituzione su queste sensibilità. Grazie all’azione di organizzazioni come questa, si è innescato un processo irreversibile, magari da calibrare, per evitare eccessi o trovare compromessi con l’industria, ma che nemmeno il ritorno di Trump potrà annullare».

Guardando al futuro: secondo te come dovrà evolvere la normativa italiana sul lobbying? Quali strumenti mancano per aumentare trasparenza e efficacia?
«La vera domanda è: quali obiettivi vogliamo raggiungere? Se l’obiettivo è la trasparenza, una legge può certamente aiutare, ma da sola non basta. Il nostro settore è talmente variegato che nessuna norma potrà coprire tutte le fattispecie potenzialmente ambigue. Servirebbe un cambiamento culturale profondo: watchdog credibili, capaci di vigilare sui comportamenti e di espellere dal mercato chi non rispetta le regole. Non si tratta di fare moralismi, ma di costruire una società civile e un’opinione pubblica in grado di indignarsi quando serve. E questo è il vero antidoto a ogni distorsione».

C’è un progetto o una campagna istituzionale che ti aspetta nei prossimi mesi e che ti entusiasma particolarmente? Di cosa si tratta?
«Sì, nei prossimi mesi sarò impegnato in una campagna europea legata a una proposta di direttiva nel settore dell’economia circolare. È un progetto che coinvolge più Paesi e richiederà un lavoro articolato su più livelli: l’obiettivo è fare in modo che l’Italia adotti a Bruxelles una posizione coerente con quella del nostro cliente, supportata da dati scientifici solidi, e da una visione concreta della sostenibilità come leva industriale. Lavoreremo con il Governo e il Parlamento, ma anche con il mondo delle imprese, delle associazioni e della ricerca, per costruire una narrativa credibile, capace di parlare alle Istituzioni e all’opinione pubblica. Il tema è tecnico, ma tutt’altro che lontano dalle persone: riguarda il modo in cui progettiamo, riutilizziamo e rigeneriamo i prodotti che usiamo ogni giorno. È una campagna che metterà insieme lobby istituzionale, media strategy e alleanze con terze parti, in un equilibrio delicato ma necessario. È proprio questo tipo di sfide complesse che mi appassiona di più: quando l’interesse particolare si può tradurre in interesse generale.

Qual è la lezione più importante che hai appreso in 20 anni di politica “dietro le quinte”?
«Che il valore più importante è la correttezza. Non promettere mai ciò che non sei sicuro di poter mantenere. Questo vale con i clienti, ma anche con gli interlocutori istituzionali. La reputazione si costruisce nel tempo, ma si può perdere in un istante. In certi casi, è meglio rinunciare a un contratto piuttosto che compromettere un rapporto. E nel lungo periodo, questa è la strategia più solida che c’è».

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