Il neo-presidente del Tribunale di Napoli Nord ha reso pubblico, in una recente intervista, il tragico dato, noto agli addetti ai lavori, in base al quale il suo ufficio sta fissando le prime udienze penali al 30 dicembre 2025, cioè di qui a oltre quattro anni. Ciò vuol dire in pratica che i fatti sottoposti alla valutazione del Collegio o del Giudice monocratico sono accaduti almeno, in media, sei o sette anni fa, se non ancora prima.

I tempi del rinvio a giudizio o della richiesta di rinvio a giudizio a opera della Procura di quel Tribunale sono, infatti, di almeno due o tre anni, se non ancora più lunghi. Facendo un esempio pratico ma reale, per una querela depositata nel novembre del 2019, ove venga disposto ora il rinvio a giudizio (cosa niente affatto scontata), l’inizio del processo avverrebbe dopo oltre sei anni. Immaginate la tensione psicologica, nel corso di quest’arco temporale, per l’imputato/i e la persona/e offesa/e e il livello qualitativo dell’attività dibattimentale, dove i testi dovranno riferire su avvenimenti che avranno ormai dimenticato o, comunque, riposti in un angolo remoto della corteccia cerebrale, con il risultato che il loro recupero sarà parziale e probabilmente non fedele a quanto visto.

Tutto ciò accade in un Tribunale istituito solo otto anni fa, nel 2013. Il giovane ufficio giudiziario, pertanto, può essere portato a esempio per comprendere lo stato comatoso del processo penale perché, se gli “adolescenti” stanno male, figuriamoci gli “anziani”.

E invero la Corte di appello di Napoli – nel cui distretto figurano, oltre Aversa, i Tribunali di Avellino, Benevento, Nola, Santa Maria Capua Vetere e Torre Annunziata – ha una pendenza di oltre 57mila fascicoli. In che modo l’annunciata e ormai prossima riforma del processo penale potrà incidere su questo “oceano di carte”, all’interno delle quali restano sospesi i diritti e le aspettative di tantissime persone? Come potrà velocizzare i nuovi processi e allo stesso tempo porre fine ai vecchi? Il titolo del disegno di legge “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti di appello” lascerebbe ben sperare, nonostante l’atto sia stato assegnato alla II Commissione Giustizia della Camera dei deputati, in sede referente, il 24 aprile 2020 e l’esame sia cominciato il successivo 25 giugno. La svolta vi è stata con il cambio di passo del governo Draghi, in carica dal 13 febbraio 2021, e in particolare con la nuova ministra della Giustizia Marta Cartabia che, seppur nei limiti consentiti dall’ampio (fin troppo) arco parlamentare, ha predisposto un percorso lungo la strada maestra indicata dalla Costituzione e non attraverso “sentieri sterrati e bui”. Il governo Draghi è riuscito, poi, a trovare l’accordo nella maggioranza con l’obiettivo di concludere i lavori alla Camera prima della pausa estiva, per poi portare in Senato il provvedimento a settembre.

Tra le novità più rilevanti spicca l’improcedibilità per il superamento dei termini di durata massima del giudizio in Corte di appello e in Cassazione. Per l’appello, il termine viene fissato in due anni; per la Cassazione, invece, un solo anno. Con ordinanza motivata, tale termine potrà essere prorogato per un periodo non superiore a un anno nel giudizio di appello e a sei mesi in Cassazione. Previste ulteriori proroghe quando si procede per particolari delitti, come quelli relativi a organizzazioni criminali. Vengono costituiti il Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, sulla ragionevole durata del procedimento e sulla statistica giudiziaria e il Comitato tecnico-scientifico per la digitalizzazione del processo, con funzioni di consulenza e supporto per le decisioni tecniche da adottare. Va immediatamente chiarito che la riorganizzazione del settore coinvolge unicamente i procedimenti per reati commessi da gennaio 2020 e non entrerà subito in vigore per consentire agli uffici giudiziari di avere le annunciate nuove risorse finanziarie e umane che dovrebbero portare all’auspicata accelerazione della procedura. Un futuro, dunque, che si prospetta

in parte roseo, ma che non tiene conto di almeno due circostanze fondamentali che potrebbero rappresentare un campo minato, pronto a esplodere su quella strada maestra che prima abbiamo indicato. Innanzitutto che la maggior parte dei procedimenti si ferma nella fase delle indagini preliminari e non solo ad Aversa, come nel caso indicato in precedenza. L’aver previsto, in riforma, la citazione a giudizio solo in presenza di una ragionevole probabilità di condanna, non è certo una novità, perché l’articolo 425 del codice di procedura penale vigente già impone il non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio. Resta, poi, l’enorme arretrato da smaltire che continuerà a ingolfare Tribunali e Corti e ben poco potrà fare il Comitato tecnico-scientifico appena istituito. Lo ripetiamo ancora una volta: la strada maestra va ripulita con l’amnistia e con l’indulto e l’avvenuto cambio di passo sarà effettivamente veloce con un’ampia depenalizzazione.