L'intervento
La scarsa trasparenza è nemica delle donne
Poche settimane fa, ma prima dell’emergenza Coronavirus, il dibattito politico segnalava la questione delle oltre 400 nomine dei vertici e degli organismi di controllo di enti, agenzie, authority e partecipate che questo governo avrebbe dovuto compiere nell’immediato futuro. Nel dibattito era opinione diffusa che una delle motivazioni per cui questo governo, come altri prima di lui, durasse, nonostante le contraddizioni, i conflitti e le tentazioni ad andare al voto per i motivi noti, fosse l’approssimarsi di tali scadenze. Con l’emergenza del Coronavirus il tema, al pari di moltissimi altri, sembra aver perso di interesse, anche perché il governo ha deciso di non procedere alle nomine in una logica “di pacchetto” ma attendendo la scadenza di ciascuna posizione.
Resta però da chiedersi se questa questione non abbia comunque una centralità e se da questa emergenza non si possano trarre delle utili indicazioni. Quando, poche settimane fa, la questione era centrale nel dibattito politico, un gruppo di 40 parlamentari donne di diversi partiti affidavano a un giornale nazionale una “lettera” al premier Conte nella quale, dopo una disamina dei temi che destano preoccupazione circa la condizione femminile nel nostro Paese, si arrivava al punto: sulle nomine di Stato il governo non dimentichi le donne. Per come veniva presentata, la questione delle nomine sembrava essere relativa alla parità di genere, e non a torto. È certamente vero che le donne sono sottorappresentate nei ruoli di vertice delle aziende, tant’è vero che una direttiva comunitaria indica ai Paesi membri la necessità di tenere conto della “diversità”, non solo di genere ma in tutte le sue declinazioni.
E che l’Ue in un regolamento ha fissato il medesimo principio per i vertici delle aziende di intermediazione finanziaria. L’Italia ha interpretato questa direttiva con una legge nazionale che prevede un regime di “quote rosa” quanto ai vertici delle aziende pubbliche e delle imprese quotate, la cui applicazione è però non priva di criticità e fonte di polemiche. Ma allora, se in molti casi c’è una previsione legislativa precisa, e in generale c’è una sensibilità al tema, perché 40 parlamentari hanno sentito l’esigenza di scrivere un pubblico appello al presidente del Consiglio? Forse nel nostro Paese siamo ancora al punto di dover elemosinare quelli che dovrebbero essere diritti acquisiti? E perché nel medesimo appello si sente l’esigenza di premettere una elencazione dei tanti temi caldi che riguardano le donne, dalla salute sessuale e riproduttiva al femminicidio?
Forse si ritiene che il tema delle nomine di donne ai vertici appartenga al più generale problema della cultura ancora patriarcale e per molti versi maschilista della nostra società? La risposta a questi interrogativi è certamente e dolorosamente sì. Ma, si ritiene, continuare a porre il tema solo in questi termini non è sufficiente, non è efficace, non è adeguato. E non lo è perché la questione del genere nelle nomine va considerata nel tema più ampio della duplice confliggente esigenza di assicurare una dirigenza qualificata, che sia sufficientemente autonoma in virtù della propria professionalità, e di garantire il legame fiduciario con la parte politica che rappresenta (o dovrebbe rappresentare) l’interesse generale.
Il conflitto tra queste esigenze si estrinseca nelle modalità di valutazione e scelta, perché se il primo principio richiama all’esigenza di considerare il merito, il secondo richiama all’esigenza di garantire un legame fiduciario. Ne consegue che le due esigenze comportano alternative modalità di scelta: la prima porta a scegliere in base a una valutazione oggettiva e comparativa delle competenze e delle qualità professionali di una platea il più ampia possibile; la seconda richiede la più ampia discrezionalità che comporta rinunciare alla trasparenza dei criteri e delle logiche delle scelte, e persino della platea dei potenziali candidati presi in considerazione.
Quale di queste due confliggenti esigenze prevalga lo si capisce non certo dai proclami, dalle dichiarazioni, dalla retorica, ma dai meccanismi di selezione adottati. Così, se c’è un concorso, un bando, una valutazione comparativa in base a criteri prescelti, vuol dire che prevale la logica del merito. Se invece la scelta viene fatta senza alcuna indicazione dei criteri e dei requisiti, in riunioni non pubbliche e senza ampia pubblicità e trasparenza del processo decisionale, vuol dire che a prevalere è il criterio “fiduciario” basato sull’appartenenza.
E come avvengono le scelte dei vertici di enti, authority e partecipate? Certo non in base alla prima delle due modalità. Anzi, nel nostro Paese c’è il paradosso che per scegliere un maestro elementare, un impiegato pubblico o un usciere si espleta un concorso pubblico, mentre per le nomine dei ruoli di vertice no; anzi, come dice il termine stesso, si tratta di “nomine”, cioè con la più ampia discrezionalità.
E allora perché porre il tema di genere per come è stato posto non è sufficiente? Perché, se non si tiene conto del quadro di fondo, non si comprende che il nemico delle donne è la mancanza di oggettività e di trasparenza. Senza queste garanzie, le scelte saranno dettate solo dal legame fiduciario e dall’appartenenza. E in una cultura ancora patriarcale e per molti versi maschilista, la fiducia che è basata sull’appartenenza predilige il simile, il contiguo anziché la competenza e il merito. E di conseguenza le donne con minore frequenza saranno preferite.
Più in generale, rischiamo di non valorizzare adeguatamente le capacità e le migliori professionalità, né degli uomini né delle donne, e di avere enti, agenzie, authority e partecipate gestiti peggio di come potrebbero essere gestiti da persone più adeguate. Ma l’emergenza Coronavirus sta lì a ricordarci che la competenza, il merito, le capacità fanno la differenza, e non dovremmo ricordarlo solo quando c’è una crisi ma prima, anzi sempre.
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