Con una intemerata dal sobrio richiamo: “Il coraggio della verità”, ieri Tito Boeri e Roberto Perotti si sono incaricati su Repubblica di prendere le misure del dramma carcerario che comporta la lesione dei diritti di molte migliaia di italiani in stato di restrizione.
«Le immagini che continuano ad arrivare da Santa Maria Capua Vetere hanno suscitato una sacrosanta indignazione», è l’incipit. Più stentoreo il costrutto: «Dobbiamo pensare concretamente a come rendere più umane le nostre carceri». E la soluzione è un uovo di colombo su cui si incentra la ricerca, invocata dai due autori, di un maggiore «coraggio sulle carceri». «Svuotare le carceri o farne di nuove?». La strada maestra si dipana davanti ai nostri occhi, leggendoli, stillata goccia a goccia, come si fa con gli estratti preziosi: «Di sovraffollamento si parla troppo poco. Bisogna costruire nuove carceri», vogliono dimostrare Boeri e Perotti, che nel far questo «sfidano un tabù». Tanto da dogliarsi delle scarne provvigioni del Recovery: «Nella versione definitiva del Pnrr è scomparso ogni accenno alle carceri», benché «la soluzione andrebbe al cuore del problema e soddisferebbe coloro che vedono nelle opere pubbliche lo strumento più efficace per creare lavoro».
Il problema non è dunque da individuarsi nella violenza dei gruppi speciali che hanno manganellato perfino i portatori di handicap, a Santa Maria Capua Vetere, no. E non sta nel silenzio con il quale dirigenti Dap e Ministro Bonafede hanno a lungo continuato ad ignorare le denunce dei fatti. No: è una questione di metri quadri. Bisogna fare carceri grandi, superfici estese piene di celle più ampie e di cortili ben sorvegliati da alte torrette. Progetti architettonici, in fondo. Che di male non hanno niente, salvo dimenticare del tutto alcuni dettagli quali la tutela dei diritti fondamentali, la fruizione di servizi, i regolamenti, le condotte, le attività, i programmi che scandiscono la permanenza dei detenuti associati. Le vite delle persone, in altri termini.
In un Paese che ha archiviato quasi del tutto i luoghi di trattamento, di formazione, di recupero dei detenuti si finisce per credere che la finalità del carcere non sia dunque più quella di reinserire socialmente gli ospiti, ma di stoccare pezzi in un luogo che debba dunque semplicemente aumentare la sua capacità contenitiva. L’articolo, che un giurista definisce con Il Riformista «molto irritante», contiene anche una pesante svista: «La leggenda che il tasso di recidiva fosse sceso dopo l’amnistia è una imperdonabile sciocchezza», dicono tirando in ballo l’ex ministro Mastella. In un Paese dove di amnistie non se ne fanno da trentuno anni, viene da domandarsi quale sia la sciocchezza non perdonabile. Mastella nel 2006 accompagnò piuttosto il percorso di un indulto (parziale). Amnistia e indulto come è noto sono due provvedimenti molto diversi.
Di recidiva e di benefici dell’indulto si erano occupati puntualmente – arrivando a conclusioni opposte a quelli di Boeri e Perotti – Luigi Manconi e Giovanni Torrente ne La pena e i diritti. Il carcere nella crisi italiana, uscito con Carocci nel 2015. Rielaborando cifre fornite dal ministero della Giustizia, i due autori si erano misurati sull’universo dei 36.741 soggetti tornati in libertà grazie al provvedimento e ne hanno valutato la ricaduta in tentazione nei cinque anni successivi alla rimessa in libertà. L’esito? Si attesta al 33,92% dei beneficiari. Un terzo del totale interessato. Dimostrando come non serva costruire nuove strutture ma liberare quelle esistenti: malgrado l’inesistenza di programmi di reinserimento, la scarsa attribuzione di titoli di specializzazione, l’irrisorio percorso di assistenza e accompagnamento professionale degli ex detenuti, il 66% dei detenuti cui si offre una nuova chance si guarda bene dal tornare a compiere reati.
Specifica Giovanni Torrente: «Una valutazione più consapevole dell’entità della recidiva dei beneficiari dell’indulto può essere raggiunta attraverso la lettura dei dati relativi all’incremento medio mensile (…). È significativo osservare che nel caso dell’indulto quasi un terzo dei recidivi abbia commesso reati nei primi 6 mesi e quasi i due terzi nel primo anno e mezzo». Sui sette anni la recidiva rimane inferiore al 40%, molto più bassa rispetto a quella ordinaria rilevata tra il 1998 e il 2005. I provvedimenti di clemenza, dunque, funzionano. Dimostrano una efficacia indubitabile. La civiltà – concludono Torrente e Manconi – si misura sulla qualità della detenzione, sul rispetto dei diritti e sulle prospettive che la detenzione offre per uscire dal carcere senza rientrarvi più.
