La vicenda dei pestaggi e delle inaudite violenze consumate nel carcere di Santa Maria Capua Vetere lasciano inorridito chiunque sente la forza di una vigliacca violenza come polo opposto del senso profondo dello Stato e fanno venire in mente, biasimandola, ogni violenza di Stato che, in quanto tale, merita una condanna secca e senza appello, al di là ovviamente della verifica della responsabilità personale dei soggetti che ne risultano coinvolti e che sarà affidata ad un giudizio che la accerterà. Ma il tema agita le coscienze perché pone la condanna di gesti che significano autorità nel senso più deleterio della parola così gettando gravissime ombre sulla autorevolezza che deve caratterizzare uno Stato democratico.

Non è tollerabile una risposta violenta a una ribellione violenta perché non esiste giustificazione alcuna, anche in considerazione della natura chiaramente punitivo–dimostrativa della reazione a freddo avvenuta nel microcosmo carcerario sammaritano. Eppure nella Costituzione è detto che la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, il che rende ancora più gravi e imperdonabili gesti di vera e propria tortura o – per usare le parole agghiaccianti della ordinanza applicativa delle misure cautelari – gesti concretizzatisi in una «mattanza». E di questo credo che debba parlarsi, interrogando le nostre coscienze. Che funzione oggi continua a svolgere il carcere? In che condizione si sconta una pena (anche se la più meritata di tutte)? E, soprattutto, nel carcere si riesce ad assolvere quella funzione rieducativa della pena come delineata nei suoi contorni costituzionali?

Io credo che il tema nella discussione politica, ma anche sociale, non possa più essere rimandato perché in Italia troppo spesso è stato rinviato indietro, nonostante le numerose condanne europee sulla violazione dei diritti fondamentali della popolazione carceraria. Non è questo il contesto per richiamare la motivazione posta a base della cosiddetta sentenza Torreggiani che apre al tema del sovraffollamento carcerario, ma forse è necessario affrontare una volta per tutte il tema dell’amnistia e/o dell’indulto che possono avere una funzione utile e necessaria per liberare il mondo carcerario da (a volte un inutile) sovraffollamento. Ci vuole un coraggio politico che il Parlamento non può non esercitare in scelte che si auspicano immediate perché solo così si può mettere un punto fermo e ripartire.

Chi scrive è stato protagonista di un’esperienza civile importante vivendo gli ultimi giorni di esistenza degli ospedali psichiatrico-giudiziari come internato volontario e così può oggi raccontare di quanto a volte era inutile una detenzione collegata a una pericolosità sociale che ben poteva essere gestita da strutture esterne alle sbarre, ma soprattutto essere presa di coscienza della società. È chiaro che non si può proporre il totale superamento del carcere, ma credo che non sia più rinviabile una riforma della custodia cautelare e dei suoi presupposti (come auspicato da uno dei referendum giustizia da poco depositati in Cassazione) laddove la carcerazione preventiva deve essere davvero e assolutamente necessaria e non svolgere altro fine. Certamente bisogna rivedere anche il tema della obbligatorietà dell’azione penale e arrivare a una punizione che sia meritata e proporzionata al valore dei beni giuridici effettivamente rilevanti la cui lesione giustifica la sanzione più aspra che incide sulla libertà personale.

Questo è un tema centrale, non strettamente giuridico ma di civiltà, se si vuole che uno Stato resti autorevole e capace di realizzare con pienezza il principio di rieducazione della pena. Non scendo nei dettagli dei fatti sammaritani, ma essi esemplificano in modo forte e chiaro la necessità di una nuova visione dei diritti dei reclusi e del rapporto che quotidianamente si svolge in un braccio carcerario. È un rapporto difficilissimo – ne sono assolutamente certo – che evidentemente non fa pendere il giudizio da una parte o piuttosto dall’altra parte; tuttavia, se uno Stato deve essere definito democratico, come lo è per fortuna il nostro, non può non trarre da gesti oscuri la luce di una riforma davvero pregnante che possa far pensare a un futuro migliore.

Le grida del dolore provocato dalla reclusione dei miei involontari compagni di cella rimbomba ancora (e lo farà per sempre) dentro la mia anima e a esse, mentre scrivo, fanno eco i rumori della mattanza oggi svelata e forse anche il silenzio della negazione quotidiana di alcuni diritti fondamentali sempre e comunque spettanti ai reclusi. Lo Stato non può permettersi tale battuta d’arresto. Ci vuole un colpo d’ala per lavare il doloroso sangue che schizza della ferita inferta alla nostra Costituzione e alla nostra democrazia. Ora o mai più. Ora e per sempre.