«Dopo gli arresti di ieri mi sento sollevato, ma la paura ancora non passa. È trascorso ormai più di un anno e ho ancora negli occhi il ricordo nitido di quei momenti terribili», racconta uno dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere finiti, quel 6 aprile 2020, nel mirino di squadrette di agenti di polizia penitenziaria accusate di aver organizzato una spedizione punitiva contro i reclusi del reparto Nilo all’indomani dell’iniziativa di alcuni reclusi di barricarsi per alcune ore per chiedere tamponi e più misure antiCovid dopo la notizia di un detenuto risultato positivo.

«Ebbi la fortuna di avere gli arresti domiciliari il 10 aprile, uscii quindi pochi giorni dopo la mattanza – ricorda – Non potevo non denunciare quello che avevo visto e subìto, ma altri compagni impauriti non lo hanno fatto. Vorrei dimenticare, ma per il momento non ci riesco. Spero che il processo arrivi presto». Il processo dovrà servire a fare realmente chiarezza su quanto accaduto all’interno del carcere sammaritano e ci si augura, a garanzia di tutti, sia degli indagati sia di chi figura come vittima, che sarà celebrato in tempi ragionevoli, senza lungaggini e intoppi. La mole di atti tuttavia è enorme, basti pensare che la richiesta di misure cautelari è contenuta in 6.140 pagine e le informative dei carabinieri che ricostruiscono i vari episodi al centro delle indagini sono racchiuse in decine e decine di faldoni, oltre 6.500 pagine.

Secondo la ricostruzione della Procura, basata non solo su testimonianze di detenuti ma anche su video del circuito di sorveglianza e chat tra indagati, sarebbero oltre 130 i detenuti vittime di percosse, maltrattamenti, umiliazioni, sevizie. Perché? L’interrogativo resta ancora aperto, infatti seppure sia stato ipotizzato il legame con la protesta dei reclusi per i timori legati all’emergenza Covid non sembra esserci proporzione tra i toni della protesta di un gruppo di reclusi e l’ondata di violenza generata dagli oltre 300 agenti arrivati nel carcere casertano in tenuta antisommossa e con schemi di azione già pronti, tanto da rendere sufficiente un cenno della testa perché ognuno si mettesse in posizione in modo da formare un “corridoio umano” sotto il quale far passare i detenuti per picchiarli brutalmente lungo tutto il percorso dal reparto Nilo alla sala di socialità. Sala dove i carcerati sono stati poi costretti a stare ore in ginocchio con la faccia rivolta al muro e subire umiliazioni e pestaggi, per poi passare nuovamente sotto il tunnel umano di calci e pugni e ritornare nelle celle nel frattempo messe a soqquadro, con le scorte di cibo sparse sul pavimento e ricoperte di detersivo in modo che i detenuti non potessero più utilizzarle.

«Mi hanno ucciso di mazzate, dal primo piano al seminterrato sono sceso con calci, pugni, manganellate – racconta ancora il detenuto – Sono stati momenti terribili, mai vissuti in un carcere. Con nessun poliziotto della penitenziaria ho mai vissuto una cosa del genere, con loro ho sempre avuto buoni rapporti. Quanto accaduto quel 6 aprile è stata una cosa assurda, mai vista. Ci hanno pestato per ore, facendoci spogliare e inginocchiare. Qualcuno si è fatto la pipì addosso, a qualcun altro hanno tagliato barba e capelli. E il giorno dopo ci hanno fatto stare in piedi, accanto alle brande, per non so quanto tempo». C’è anche chi è svenuto durante il pestaggio e chi lo ha subìto nonostante fosse sulla sedia a rotelle.

Saranno l’inchiesta e il processo a dare verità e giustizia, a chiarire dinamiche e responsabilità. Intanto la notizia continua a destare indignazione. «Il carcere è il luogo del dolore e della sofferenza e non può mai essere spazio nel quale possono essere sospesi i diritti delle persone ristrette – afferma l’avvocato Anna Maria Ziccardi, presidente del Carcere Possibile – Per questo non c’è spazio per alcun cono d’ombra». «A noi – aggiunge – interessa ribadire il principio che uno Stato che ha a cuore la propria stessa dignità non può tollerare che le proprie carceri siano isole nelle quali si tollerino, si pratichino e si celebrino abusi e vessazioni ai danni di chi è privato della libertà. E nessuna situazione emergenziale può giustificare tolleranze o connivenze, esplicite o implicite che siano».

Anche l’associazione Antigone, attraverso il presidente della sede campana Luigi Romano e il responsabile contenzioso Simona Filippi, chiede che al di là delle posizioni dei singoli indagati si faccia chiarezza «su alcune contraddizioni del sistema penitenziario, come l’esercizio della forza in contesti di reclusione, nervo scoperto del nostro ordinamento, assolvendo quella domanda di giustizia emersa in seguito alle violenze esplose in questi mesi». Invece il sindacato Uilpa della polizia penitenziaria propone di dotare gli agenti delle bodycam: «Non è più rinviabile – spiega il segretario generale Gennaro De Fazio – al fine di riprendere ogni fase operativa all’interno delle carceri».

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Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).