È nell’oscurità, negli interstizi più ombrosi della elefantiaca macchina del potere, che albergano gli spettri della corruzione e del malaffare. Lo sentiamo ripetere assai spesso. L’intollerabile peso di una decisione assunta dove nessuna luce penetra, in un silenzio claustrale, rinfocola da sempre il sospetto dell’abuso, del favoritismo, dell’uso privato della cosa pubblica.

Li chiamano arcana imperii, riprendendo l’espressione tacitiana, per indicare la solennità, non necessariamente disfunzionale ma comunque velata dal sudario della irrappresentabilità esteriore, del potere. E nonostante la nota massima di Filippo Turati sull’amministrazione come casa di vetro sia divenuta un mantra reiterato sistematicamente da operatori del diritto, politici, convegnisti, opinionisti assortiti, nonostante da anni, sia sulla spinta di organizzazioni sovra-nazionali sia del diritto euro-unitario, la trasparenza dell’agire amministrativo e dell’organizzazione dei pubblici poteri sia considerata elemento essenziale per combattere le patologie del potere, la trasparenza sembra essere divenuta una di quelle parole d’ordine buone per ogni stagione.

Correva l’anno 2013, quando il legislatore ha sacralizzato la trasparenza amministrativa prevedendo una serie, non banale e non tenue, di obblighi e di incombenti in capo tanto alle amministrazioni quanto ai singoli individui che le popolano, dai dirigenti ai consiglieri e ai consulenti.

In stretta, irrinunciabile endiadi, la legge sulla trasparenza si è accompagnata alla normativa anti-corruzione e a quella sull’accesso agli atti, che è stata potenziata recependo gli istituti dell’anglo-sfera come l’accesso civico.

Amministrazioni incanutite si sono trovate a dover pubblicare nelle frettolosamente erette sezioni “amministrazione trasparente” curricula, emolumenti percepiti a carico della finanza pubblica, dichiarazioni varie, atti di conferimento di incarichi, atti amministrativi generali, in un crescente caos che sul lungo periodo ha finito per ingolfare e rendere difficilmente intellegibili quelle stesse sezioni dei siti internet. Non sempre, poi, graficamente e funzionalmente di facilissima navigabilità.

Non c’è alcun dubbio: un eccesso di trasparenza equivale a nessuna trasparenza. Un oceano di dati riversati addosso ai cittadini, molto spesso informazioni di dubbia utilità, rendono curiosità e attenzione più basse, meno vive. Una sorta di sovraccarico sensoriale e informativo, un genuino information over-load.

Il presupposto fondante di questo approccio alla ‘trasparenza totale’ è una visione antropologico-negativa del comportamento del pubblico dipendente, una ansia di controllo e di sfiducia, per cui si deve immolare sull’altare della trasparenza anche la piena comprensibilità di ciò che si va pubblicando, annegando spesso atti importanti e davvero essenziali sotto una coltre spessa di curricula e altri dati di scarso pregio.

E al tempo stesso, questa declinazione peculiare e formalista della trasparenza ha reso, paradosso ma fino ad un certo punto, l’oscurità sempre più evidente, sempre più nera e avvolgente. E dentro quella oscurità, nel profluvio di atti tutto sommato ridondanti, si sono persi interpelli o il conferimento di incarichi delicati.

Per questo, un certo modo di intendere la trasparenza è nemico per eccellenza dei cittadini e della stessa trasparenza. E non c’è dubbio che la trasparenza amministrativa, soprattutto in epoca di populismo, sconti un altro problema: essa è divenuta perno nodale di edificazione e di svolgimento di funzioni, quindi ragion pratica, di strutture amministrative che vengono evocate da una certa politica come panacea di ogni male, nel generale quadro di una amministrazione imbrigliata in una foresta di controlli interni ed esterni ma, decisamente, moralizzata.

Meglio sarebbe un approccio realista e sostanzialista, disboscando gli oneri di pubblicazione, rendendo più chiare le sezioni ‘trasparenti’ e centrando la responsabilità di scelte e atti su chi ha davvero il potere di decidere, assumere, finanziare.

Andrea Venanzoni

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