Giustizia
La cultura per ‘salvare’ la giustizia: il monito dei professori di penale alla presentazione del libro di Morena Gallo
La giustizia penale è un’emergenza incrollabile, che rischia di divenire «una emergenza definitivamente incontrollabile con danni individuali e sociali a carico dei cittadini irreversibili». È questo il grido d’allarme lanciato nel corso della presentazione del libro “La chiamano giustizia ma è ciò che il giudice ha mangiato a colazione”, scritto dalla giornalista calabrese, Morena Gallo.
L’incontro, organizzato dalle Camere penali di Catanzaro e Cosenza, dall’Ordine degli avvocati di Catanzaro e Cosenza, dall’Accademia cosentina e dalla rivista “Critica del diritto”, ha messo in luce in maniera inequivocabile il rischio, ormai sempre più concreto, di una giustizia affidata a magistrati che si sentono “tribuni”. «È cosa nota che quello a cui stiamo assistendo negli ultimi anni è un imbarbarimento del nostro sistema giudiziario. Alla sospensione di alcuni fondamentali principi costituzionali – ha detto l’autrice del libro Morena Gallo – I figli della mia generazione avallano la deriva giustizialista: come se in campo vi fossero solo due schieramenti: il male e il bene, e come se il bene si trovasse sempre e comunque da una parte, quella parte rappresentata dalla magistratura, in particolare quella d’accusa. Con questo ovviamente non voglio dire che nella magistratura si trova il male, ma dobbiamo uscire da questa logica manichea. Anche i magistrati sbagliano perché non hanno la verità in tasca. E un giornalismo che si dica tale oltre a magnificare il lavoro dei magistrati, lo deve anche, e forse soprattutto, criticare quando vi sono i presupposti».
Per il professore Giovanni Fiandaca, «uno dei grossissimi problemi della giustizia penale oggi è quello del tipo di cultura giurisdizionale. Del tipo di cultura penale che predomina nell’ambito della magistratura o almeno in alcuni dei settori più attivistici, più interventistici della magistratura. In un contesto nel quale punire non solo in Italia è diventato una passione contemporanea bisogna contrapporre antidoti culturali di segno diverso e impegnarci più di quanto abbiamo fatto». E, in riferimento alla vicenda di Giuseppe Caterini, condannato in primo grado per aver adempiuto ad un suo dovere, precisa che «le cause vere del diffuso fenomeno di malagiustizia sono cause che stanno a monte, sono cause di ordine culturale che attengono alla concezione che il magistrato penale – e quando dico magistrato ovviamente mi riferisco sia il pm che al giudice e in particolare mi riferisco al magistrato che esercita un ruolo di accusa – ha del proprio ruolo, alla concezione che il magistrato ha degli scopi del processo penale, alla concezione che il magistrato ha delle indagini preliminari, alla concezione che il magistrato ha della notizia criminis».
Anche per il professore Giorgio Spangher è un problema culturale: «con questo convegno noi cerchiamo di dare voce ai tanti Caterini – ha esordito nel suo intervento – A tutti i Caterini che non hanno voce, perché le persone che vengono assolte a seguito di un processo penale sono tantissime, se non vengono assolte in primo grado vengono assolte in appello; lo Stato paga fior di denari per la carcerazione preventiva, che permetterebbero annualmente non so quante assunzioni di personale. Dobbiamo migliorare sul piano culturale: il discorso è che dobbiamo migliorare sul punto di vista culturale non soltanto noi, non soltanto l’avvocatura, non soltanto anche la magistratura, ma il Paese, perché il mio timore è che del processo penale si pensa sempre che è una brutta bestia e lo è, perché costa, costa moralmente, costa socialmente, costa economicamente agli imputati anche quando vengono assoluti».
E sugli effetti del processo penale, ricorda che «si pensa sempre che il processo penale tocchi agli altri e non tocchi a te; invece la convinzione che noi dobbiamo realizzare è che il processo penale può toccare a chiunque ed è una bestia soprattutto per chi è innocente, che subisce un danno doppio, perché almeno il colpevole ha una ragione per capire che è sottoposto a processo penale; l’innocente, come Caterini, non riesce a cogliere, perché non riesce a capire e ne subisce gli effetti nella famiglia, negli affetti, nella società. Non c’è un’esigenza sociale che riguarda gli altri. Il processo penale riguarda noi». Il popolo sembra disconoscere il termine garantisco. Per il professore Luigi Stortoni «la volontà popolare non è educata al garantismo e ai principi, plaude il giudice che condanna e insulta e beffeggia il giudice che assolve e il giudice fa sempre più fatica – anche perché la sua cultura non è garantista – a capire che la sua posizione è quella di chi si frappone fra la voce della gente che chiede il linciaggio e l’imputato reo, magari colpevole, e che la folla non faccia giustizia con il linciaggio, ma sia la legge a giudicarlo, secondo i principi che valgono per tutti».
È stanco di sentire la parola garantismo il professore Sergio Moccia, secondo cui «il problema allora riguarda il non garantista, perché garantista significa applicare la legge; uno o è giurista o è giudice o non è, non è niente se non applica la legge». Sulla vicenda giudiziaria trattata nel libro, invece, si interroga il consigliere della Corte di Cassazione, Antonio Bevere: «mi chiedo se ci siano state reazioni nei confronti dei magistrati che hanno mal ricostruito il fatto, senza tenere conto del fatto che era in corso un reato che è stato interrotto da un cittadino, un pubblico ufficiale encomiabile; c’era un dato di fatto che lo rendeva eroico e invece lo hanno reso un imputato ed anzi un condannato. Vittima di un errore giudiziario, ma vittima anche di un piccolo imprenditore che vive in Calabria».
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