Le dimissioni della Clemente non per legge ma per motivi di opportunità

Si parla di prossime dimissioni dell’assessora Alessandra Clemente dalla Giunta comunale di Napoli in scadenza, perché qualcuno obietta che altrimenti potrebbe, permanendo nell’ufficio, ricevere un indebito vantaggio di visibilità. Vediamo di chiarire.

Nessuno può vietare ricandidature a un’assemblea o di chi abbia fatto parte di essa o di un esecutivo e si riproponga. Anzi, la competizione elettorale è il momento giusto per premiare chi abbia bene operato e per punire chi non abbia soddisfatto. Lo stesso avviene altrove: tra i rimproveri mossi a Donald Trump non gli è però stato contestato il diritto di ricandidarsi alla presidenza statunitense restando in carica, né a Hillary Clinton, arrivata a un passo dalla Casa Bianca, si è negato di farlo da segretario di Stato di Barack Obama. È la legge a stabilire condizioni di ineleggibilità, incompatibilità e incandidabilità a cariche pubbliche e nessuno degli attuali candidati a sindaco vi incorre.

Non la signora Clemente; non Gaetano Manfredi, già rettore della più grande università del nostro Meridione, una delle più antiche del mondo, poi ministro del settore successivamente tornato a insegnare ingegneria alla Federico II; non Antonio Bassolino, da tempo cittadino senza alcun laticlavio, benché autorevole; non Sergio D’Angelo che pure gestisce associazioni di cooperative, nessuna delle quali evidentemente cofinanziata dal Comune o in contenzioso con esso (altrimenti non sarebbe in campo). Posizione a parte quella di Catello Maresca, fino a poco tempo fa sostituto presso la Procura della Repubblica di Napoli e “candidato ombra” del centrodestra, uomo col vento in poppa, attivo in iniziative di volontariato e circondato da una curiosità non malevola, il cui persistente rifiuto di accettare simboli di partito tra le liste a suo sostegno sembra averne oggi appesantito la corsa. Anche qui, beninteso, non c’era un divieto legale, ma forse dubbia eleganza.

A tesisti che mi confidavano di volere entrare in magistratura e contemporaneamente coltivavano un impegno politico raccomandavo di scegliere subito tra le due vocazioni, non sembrandomi opportuno che chi ambiva a essere una figura super partes si abituasse a schierarsi al tempo stesso per una di esse. Ma queste sono ubbie da professore, pur se condivise dalla commissione Luciani che, su incarico della ministra della Giustizia Marta Cartabia, ha formulato proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario e per formare il Consiglio superiore della magistratura. Mi si replicherebbe che intanto una rigida separazione tra due modi di servire il bene pubblico non c’è, anzi constano precedenti di cambio di casacca, da “candidati civici”: in tempi recenti un magistrato sindaco di Portici e un pubblico ministero per poco assessore dell’originaria giunta de Magistris, salvo entrare con lui in conflitto dopo poco e diventare il primo giubilato di una lunga serie.

In attesa di stringere i freni, basta allo stato ottenere un’aspettativa: così Michele Emiliano è tuttora nell’ordine giudiziario, dopo essere stato sindaco di Bari, segretario regionale e concorrente alle primarie per la segreteria nazionale del suo partito, presidente della Regione Puglia. Impalpabile è il senso di opportunità: del resto debole anche in Roberto Fico, presidente della Camera, che abbandona temporaneamente uno scranno sopra la mischia, e nel presidente – nell’interesse di tutti – della Regione Campania Vincenzo De Luca, quando gettano il loro peso in campagna elettorale.