Con Gaetano Manfredi che alla conferenza stampa con Giuseppe Conte di ieri si è dichiarato “civico” siamo al paradosso. Tutti e cinque gli aspiranti sindaci di Napoli si dichiarano civici. Se ci credessimo, dovremmo giungere alla conclusione che Napoli non interessa alla politica professionale e il civismo non avrebbe nulla al quale contrapporsi. Ma il civismo dei cinque candidati è variegato e, spesso, ambiguo.

Catello Maresca, è vero, non ha chiesto a nessuno il permesso di candidarsi e il centrodestra ufficialmente converge sul suo nome, ma in realtà quest’ultimo non escludeva già di candidarlo alle regionali, dalle quali poi il pm si è sfilato quando ha compreso che l’esito era scontato. Quindi ha puntato sul Comune di Napoli senza attendere investiture, ma ormai da “uomo d’area”. La sua candidatura un po’ è civica, perchè ha forzato la mano al centrodestra, un po’ no, perchè non saranno mancate le garanzie (e Maresca ha atteso il dileguarsi di Mara Carfagna che ha abbandonato ogni investimento sulla prospettiva cittadina).

Non dissimile la scelta di Antonio Bassolino, che davvero non ha partiti alle spalle, e ha giocato d’anticipo all’indomani della formazione del governo Draghi, anticipando le possibili candidature di Manfredi e Amendola, non appena ha avuto conferma che entrambi non erano presenti nella nuova compagine ministeriale (nella quale Amendola è rientrato successivamente). Bassolino ha i tratti esteriori del “civico”, ma è stato un fondatore del Partito democratico, è un veterano della politica in quanto prima inossidabile dirigente cresciuto alla corte di Enrico Berlinguer e come lui “totus politicus”, poi sindaco di Napoli, presidente della Campania e ministro della Repubblica. Lasciamo perdere. Alessandra Clemente appartiene chiaramente all’entourage di Luigi de Magistris, capo indiscusso di un movimento o micro-partito, Dema, che ha fatto del civismo e della contrapposizione ai partiti tradizionali il suo tratto distintivo. Dopo dieci anni di amministrazione, però, appare difficile accreditarsi come espressione civica, tanto che il “de cuius politico” della Clemente, ormai fuori dalla magistratura, cerca un prolungamento della carriera svernando in Calabria.

Manfredi l’ultimo “civico” in ordine di arrivo, è sicuramente un’eccellente personalità della società civile ma, anche a non voler considerare l’esperienza ministeriale dove il suo profilo era ancora al limite tra il tecnico e il politico, oggi nessuno dubita che sia il candidato di Conte, in quota Movimento 5 Stelle, come tale scelto nei tavoli romani.
Resta Sergio D’Angelo, fondatore e presidente del gruppo di imprese sociali Gesco e commissario straordinario dell’azienda idrica comunale Abc, assessore alle Politiche sociali nella giunta de Magistris dal 2011 al 2013: sicuramente più autonomo dal sindaco uscente rispetto alla Clemente, è forse l’unico che si possa con un metro sobrio definire “civico”, ma non attira certo masse di cittadini.

Questa “epidemia di civismo”, tuttavia, per quanto appaia largamente ipocrita, esprime un elemento di profonda verità. A Napoli non è cresciuto niente, negli ultimi venti anni, e i partiti restano fonte di imbarazzo. Nel centrodestra l’ultimo vivaio di organizzazione e gruppi dirigenti è stata Alleanza Nazionale, ma stranamente Fratelli d’Italia non riesce a raccoglierne l’eredità. Forza Italia è da sempre evanescente e la Lega ha chiari ed evidenti limiti di radicamento. Il centro politico, pur affollato nel corso degli anni, non ha prodotto nulla e si è risolto in un valzer di sigle che si sono avvicendate. Del M5S è inutile dire, nonostante sia il partito con dirigenti di maggior peso nazionale (Roberto Fico e Luigi Di Maio su tutti). A sinistra del Pd si è registrata una grande diaspora: Gennaro Migliore è addirittura in Italia Viva, Arturo Scotto appartiene ad Articolo 1 (unica lista che ha appoggiato Vincenzo De Luca alle regionali senza ottenere neanche un seggio.

Resta il Pd, partito certo più debole in città che in provincia, e tuttavia organizzato, per quanto fragile elettoralmente. Al momento, però, non ha una classe dirigente già spendibile, almeno a certi livelli, tanto che, quando si è parlato di una candidatura sua espressione, si è ricorso al nome di Amendola, dirigente di prestigio che però ha fatto carriera per linee interne e non sul territorio. Non si può che trarre la conclusione che i partiti – ma direi anche il tessuto sociale della città – vivano uno stato comatoso profondo succeduto alla crisi del pentapartito (su pensi ai gruppi dirigenti democristiani e socialisti del passato). Come se ne esce? Intanto, evitando di contrapporre partiti e civismo, tanto più se falso. E poi tornando a scuola – scuola di partito – a studiare teoria e pratica per formare dirigenti degni di questo nome. Aiuterebbe anche a resistere ai diktat dei tavoli romani.