Ci sono romanzi talmente fascinosi che la trama alla fine è un pretesto, un accompagnamento di accordi di un tema sontuoso, quasi si vorrebbe dire che poco conta. Ecco, “Il coccodrillo di Palermo” di Roberto Andò (La Nave di Teseo) è uno di questi. Il famoso regista, già autore di altre opere letterarie («Il trono vuoto» vinse il Campiello opera prima nel 2012), ha scritto un libro ammaliante tra l’onirico, il filosofico e il giallo, semplice e complesso, sfuggente e compatto: aggettivi opposti, si dirà, ma l’alchimia è consona al grande soggetto della storia, Palermo. Riuscire a penetrare Palermo, a evocarne quell’assurdità misteriosa, a cogliere quell’irriducibile contrasto tra la storia e la filosofia, tra il suo vociare e i suoi silenzi, è possibile solo a un palermitano; a tutti gli altri resta la squisita, rapida sensazione di aver afferrato qualcosa, mai il tutto.

Andò conduce il lettore in un labirinto molto sciasciano: in fondo è il famoso “contesto”, somma di una serie di vicende oscure – come potrebbe essere altrimenti, a Palermo – che discendono da brandelli di conversazioni telefoniche che sarebbero dovute finire al macero ma che il padre del protagonista, Riccardo Alzo, già misteriosissimo poliziotto, ha conservato nella sua casa con la consegna al figlio di farle uscire dall’oblio e restituirle ai diretti interessati. Suo figlio Rodolfo, documentarista di successo, tornato dopo anni nella sua Palermo, trova le bobine e si mette a indagare su quei nomi, quelle storie – dunque su fantasmi – con una “indagine” che finisce inevitabilmente per essere anche su suo padre: chi era veramente? E com’è morto? Qui c’è la Palermo “nera” dei misteri e dei delitti, di personaggi strani, poliziotti infidi e cronisti ambigui, e amorazzi, belle femmine, pure tanta musica colta, è una città immortalata nella fissità nell’aria scettica delle sue strade, delle sue case, di odori eterni.

«È un gesto di sopravvivenza, riflesso di un originario vizio antropologico: siamo stati addestrati per selezionare una storia da raccontare o da ricordare». Ecco Palermo, dunque, «una città che da sempre ama intrattenersi con i morti e trascurare i vivi», folgorante: «Le terrazze con le piante di pomelia e i barattoli di plastica a proteggerne i boccioli, i serbatoi sbiancati dalla calce, le macchine sfasciate abbandonate per strada, i posteggiatori ebefrenici, la spazzatura, le palme washingtonie flessuose malate, il mare invisibile, la quiete prima del Giudizio, i vicoli invasi da personaggi di un crime movie di serie B, la brioche col gelato di pistacchio, la merda spiaccicata per strada, desiderosa di redenzione, la polvere, i miasmi, la frittura, lo scirocco che ti si appiccica addosso, la gente che parla e si ferma, che parla e ti tocca, che parla e minaccia, la profondità del tempo e insieme la sua evanescenza».

Il viaggio che Rodolfo Anzo compie, come quello di Dante, è nella selva oscura della Kalza, della Vucciria, dei grandi viali del centro, del lungomare, dell’hotel delle Palme tra anime morte in un girotondo sdrucito come le tappezzerie dei salotti dei vecchi palazzi nobiliari di quella città antica, tentando di cogliere un nesso tra tutte quelle storie evocate dalle bobine che il padre gli ha lasciato. Rodolfo si apposta, pedina, insegue, dialoga con quei fantasmi. Ma capisce che tra le storie delle bobine non esiste nessun nesso; eppure fino alla fine si intestardisce andando avanti come un vero detective, com’era il padre che pare dirgli «faccio il poliziotto per entrare abusivamente nella memoria degli altri. E tu dopotutto con i documentari fai la stessa cosa». Il rispecchiamento del figlio nel padre è doloroso e la vicenda narrata non ne chiarirà il motivo.

Non si chiarirà nulla – il “coccodrillo” del titolo è la metafora di questa impossibilità di venire a capo delle cose – perché a Palermo non esistono reali rapporti tra cause ed effetti, vi domina il caso malgrado la logica algebrica delle vendette. E tra le persone «i rapporti umani sono vischiosi» – che aggettivo perfetto – sicché non è chiaro il confine tra fantasia e realtà, come ben sapevano Pirandello e ancora Sciascia. Resta alla fine del gran romanzo di Roberto Andò un senso di spaesamento, come di sogno: Rodolfo Anzo ha eseguito la volontà del padre, riconsegnando i misteriosi nastri ai rispettivi protagonisti. Senza sapere nulla di quello che è stato, di quello che sarà. Forse senza nemmeno sapere se è stato tutto vero.